Orgasmo da poltrona

Avevo partecipato anche a delle feste, oltre che ai workshop. Quello che mi aveva rapita maggiormente in occasione dei party era quel guardaroba di abiti teatrali posto poco dopo l’ingresso, che veniva messo a disposizione dei partecipanti prima delle serate per creare il proprio unico, strabiliante, sfavillante dress code. E fu proprio durante una di queste feste in costume che vissi una particolare esperienza, una delle prime durante le quali mi lasciai andare al piacere in mezzo al grande pubblico. La festa iniziò che fuori era il tramonto, le luci della sala erano da poco state accese, le grandi finestre non ancora oscurate dalle tende. Giravo senza meta per la sala, a quell’ora c’era già abbastanza gente ma nessuno ancora delle persone con le quali avevo un po’ più confidenza; presi un bicchiere di vino rosso per ingannare il senso di attesa aspettando che la serata decollasse o che arrivasse qualcuno con cui scambiare due chiacchiere, o due frustate in amicizia. Fu allora che lo incontrai. Aveva delle spalle larghe, quell’uomo, era fisicamente ben piazzato; indossava un mantello corto e una gonna di pelle nera, il petto era completamente nudo eccetto un’harness di cuoio borchiato che glielo cingeva, in maniera non troppo stretta. Era vestito da vichingo, in testa indossava un elmo con le corna abbastanza realistico, si era fatto la barba di fresco e – tocco speciale – aveva dipinto le labbra di rosso e s’era messo la matita nera sotto gli occhi. Quella sera io indossavo un vestito di rete nera a maglie abbastanza larghe senza nulla sotto, e nel guardaroba di costumi situato poco dopo l’ingresso avevo preso una pelliccia finta di colore bianco, vecchia, vecchissima, il cui pelo era a tratti stropicciato e col tempo aveva perso il suo candore; c’erano anche due o tre buchi rammendati da qualche parte, uno su di un fianco e altro su una manica. L’aria decadente e affascinante di quel soprabito mi aveva  completamente rapita. Così, mentre camminavo per la sala dirigendomi col mio vestito a rete nero e la pelliccia vintage bianca velata dal segno del tempo, io e quell’uomo ci avvicinammo, in maniera del tutto spontanea come due astri gravitanti e cominciammo a chiacchierare di come eravamo giunti a frequentare Schwelle7. Non mi sentivo particolarmente attratta da lui; era simpatico e gentile, nessuna fantasia erotica mi stava germogliando dentro, ma neanche rifuggivo la vaga idea di qualcosa che potesse nascere spontaneamente. Finimmo così gli argomenti d’approccio generici iniziali, e tornammo io a gravitare in cerca di qualcosa da fare e lui a scrutare i presenti da sotto il suo elmo cornuto. La grande sala si era riempita presto di ospiti, la musica non invasiva di sottofondo invitava a conversazioni garbate e piacevoli, l’atmosfera era rilassata e colloquiale. C’erano qua e là donne in calzamaglia, che sfilavano davanti a donne e uomini nudi sdraiati sui sofà ai lati della sala; qualcuno volteggiava in giro indossando una vestaglia cinese rosa antico con degli stivali dal tacco vertiginoso e una parrucca nera, qualcun altro aveva indosso una gonna di latex e sussurrava all’orecchio di una donna vestita da Gesù, con tanto di barba finta e piccola croce sulle spalle. Trovai, poco dopo, dietro una delle colonne che sezionavano il grande spazio dell’atelier, una poltrona che sembrava versare in dubbie condizioni, rivestita di pelle rosso scuro; si addiceva perfettamente alla pelliccia bianca che indossavo e all’aria da regina decadente e svogliata nella quale mi ero avvolta quella sera, nonché al colore dei miei capelli. Decisi che mi sarei fermata su quella seduta, e avrei passato almeno un po’ del tempo che avevo a disposizione calandomi nel ruolo di voyeur: mi sdraiai quindi di traverso e iniziai con l’osservare, proprio davanti ai miei occhi, un inizio di piccola orgia – quattro o cinque persone, non di più, alcune ancora non completamente nude ma già avvinghiate le une alle altre. Non passò molto tempo che il vichingo si affacciò da dietro la colonna, venendo verso di me, inginocchiandosi e chiedendomi di potermi massaggiare i piedi – sporchi tra l’altro, visto che era da un bel po’ che camminavo scalza! Ma a lui non importava, era lì inginocchiato e chiedeva gentilmente di poterli prendere in mano e massaggiarli. Gliene consegnai uno, il sinistro, le sue mani cominciarono ad accarezzarlo, lisciarlo, toccarlo con un’andatura sicura fino a entrare in profondità con le dita e a farmi provare anche un po’ di dolore, sopportabile e piacevole. Ci mise un po’ prima di passare all’altro, sembrava gustarsi tutti i momenti di quella manipolazione, la consistenza dei miei piedi, persino il retrogusto e la consistenza vischiosa dei rimasugli odorosi del catrame della terrazza sulla quale ero uscita poco prima a prendere un po’ d’aria. Quel massaggio durò per un tempo imprecisato, poi il vichingo mi baciò i piedi, li strinse nelle mani, si alzò e continuò a camminare per la sala, dopo avermi salutata con un inchino. L’orgia che stavo osservando poco prima intanto stava scaldando l’aria lì attorno, i partecipanti erano oramai tutti nudi e già ansimanti e sudati. Altre persone si erano avvicinate e giacevano nei paraggi per assaporare l’energia che quei corpi emanavano nei loro movimenti sinuosi, sudati, vogliosi – chi su un materasso, chi seduto a terra, chi sdraiato, come me, su una poltrona. Poco distante, tra i corpi sinuosi che danzavano tra loro come sciami di api ronzanti vidi apparire per la prima volta, arrivando dalla zona bar, Michaela, la compagna di Felix, in tenuta da gran cerimonia con indosso dei tacchi vertiginosi, calze a rete a trama larga, bustino ed un grande strap-on penzolante dalle sue gambe che prendeva vita ad ogni suo passo, mentre incedeva solenne nella sala in cerca di carne accogliente per saziare la sua appendice vibrante con uno sguardo sicuro e seduttore incorniciato da una chioma bionda selvaggia. Il vichingo tornò poco dopo, fermandosi e inginocchiandosi nuovamente davanti a me chiedendo di poter continuare il massaggio iniziato prima e interrotto per quella camminata. Feci un cenno con la testa. Prese di nuovo uno dei miei piedi in mano e cominciò a manipolarlo, carezzarlo, baciarlo, per poi iniziare a risalire verso la caviglia, il che cambiò tutta la gamma di sensazioni che stavo avendo in quel momento. La strinse, la palpò, la strizzò delicatamente, e già mi girava la testa, poi riservò lo stesso trattamento anche all’altra, e sembrava che i miei piedi tornassero a respirare, e le mie gambe pian piano ad allargarsi. I suoi movimenti erano decisi ma gentili, a volte mi sfiorava soltanto, altre entrava fin nella parte profonda dei miei piedi facendomi contorcere un po’ dal dolore su quella poltrona leggermente sfatta. Smise poco dopo, lasciando le mie caviglie desiderose di farsi ancora toccare, baciò entrambi i piedi, poi si alzò e, come aveva fatto la prima volta, continuò a camminare allontanandosi nuovamente. Cominciai quasi in maniera distratta a sfiorarmi l’interno coscia con una mano, che intanto avevo portato tra le gambe, sentivo uno strano connubio tra eccitazione e rilassamento, il che mi rendeva pacatamente euforica. Nel frattempo, oltre all’orgia che era entrata in una fase di stanca nella quale i partecipanti tutt’al più si strusciavano languidamente uno sull’altro, si erano accesi vari altri focolai di passione attorno: chi era stato legato con le corde in sospensione a un gancio al soffitto, chi si rotolava a terra in un susseguirsi di rantolii gutturali, chi stava indossando uno strap-on. Poco distante da me, giusto dietro la colonna, un’altra piccola orgia stava prendendo il via: potevo vedere le diverse paia di piedi sporgere dal bordo del letto rialzato che era stato addossato alla colonna e qualche fondoschiena prominente probabilmente appartenente a qualcuno inginocchiato intento a praticare una fellatio o cunnilingus. Ne sentivo i gemiti, ed erano piuttosto ispiranti se devo essere sincera. Non passò molto tempo che il vichingo si fece rivedere, stavolta senza elmo. Si diresse verso di me, dopo avermi guardata negli occhi durante tutto il tragitto che ci separava, e iniziò a ripetere lo stesso rituale delle volte precedenti: si inginocchiò e prese – stavolta senza neanche più chiederlo esplicitamente – i miei piedi in mano, per cominciare a massaggiarli. Non si limitò alle estremità e alle caviglie stavolta, ma cominciò a risalire su per le gambe, soffermandosi sulle ginocchia, passando del tempo a carezzarle, impastarle, mentre mi baciava la parte inferiore dove era appena passato con le mani. Risalì poi nella parte più carnosa, dove affondava le dita con una sorprendente e sapiente decisione; a tratti, sfiorandomi, mi faceva sussultare e incurvare la schiena, tanto che trovai più comodo lasciarmi scivolare lateralmente del tutto sul bracciolo, completamente di traverso, in maniera languida. La pelliccia era interamente sciolta ai lati del mio corpo come gelato alla panna, il vestito a rete scostato e tirato su fin sopra l’inguine; non portavo alcun tipo di biancheria intima e non mi ero neanche rasata, il che dava, a mio sentire, ancor più l’idea decadente ma lussuriosa e selvatica di voler godere di quel momento speciale senza tener conto di null’altro. Belle quelle mani, forti e decise e delicate allo stesso tempo, che strizzavano, lisciavano, accarezzavano la carne abbondante delle cosce, fin su all’inguine, per poi tornare ai piedi e alle caviglie e ricominciare. Ad ogni ondata la sensazione di piacere saliva col salire delle mani, sempre più su, sempre più a fondo, per poi ricominciare dal basso facendomi ansimare e ciondolare la testa e le gambe al di fuori dei braccioli della poltrona con gemiti sempre più evidenti. Non feci in tempo ad abituarmi che mi lasciò ancora lì, quel vichingo, alzandosi con uno sguardo compiaciuto per riprendere a camminare per la sala con i suoi stivali slacciati e il suo mantello corto svolazzante. Mi lasciò liquefatta, molle, senza barriere né pudore, con le gambe completamente aperte e rilassate, mentre la nuova piccola orgia che aveva preso il via lì dietro la colonna sembrava aver assorbito anche i partecipanti assopiti dell’altra, ora riattivati dall’arrivo di nuovi peccaminosi stimoli, fondendosi con piacere nelle nuove ondate di sinuosa voluttà.  Respiravo profondamente, chiudevo gli occhi, portavo la mano destra in mezzo alle gambe, le sfioravo, accordandomi con i gemiti e i gridolini provenienti da quel mucchietto di persone in preda alla lussuria ammassate selvaggiamente dietro l’angolo, ripercorrevo tutto il precorso che quelle mani servili e sapienti avevano tracciato poco prima, lasciando impresse sensazioni così marcate negli strati più profondi del mio corpo. Mi rigiravo su quella poltrona sfondata, vecchia e lisa ma accogliente, avvolgente, sollevavo la schiena, il bacino, sollevavo le gambe e continuavo a toccarmi lì in mezzo, lì dove la peluria marcava un territorio sacro e primordiale, dove le sensazioni si fanno più dense, viscerali, dove il richiamo dell’istinto, se opportunamente assecondato e stimolato, vince sulle barriere razionali che ci imponiamo quotidianamente. Sapevo che quell’uomo sarebbe tornato di lì a poco, sapevo che non mi avrebbe lasciata sola, che avrebbe continuato ad accompagnarmi in quel viaggio, ma allo stesso tempo quelle pause mi davano la possibilità di entrare in contatto con la mia personale eccitazione, quei momenti di ampio respiro durante i quali il desiderio si fondeva con il mio corpo, diventavano un tutt’uno in attesa dell’ondata seguente, mentre la sensazione di piacere si dipanava fin negli strati più profondi. Il vestito a rete nel frattempo era oramai arrivato al seno, si era arrotolato su sé stesso, discostato dalla mia pelle come un sipario aperto rivela la scena che si sta svolgendo sul palcoscenico; la pelliccia era arruffata, di contorno al mio corpo fuso con la poltrona, mi lasciava esposta. Si fece attendere stavolta quel virtuoso uomo in gonnellino di pelle e mantello corto. Si fece attendere con sapiente gestione del tempo e dell’aspettativa ad esso collegata. Spuntò da dietro un’altra colonna, alla quale una donna alta e snella coi capelli lunghi sciolti sulle spalle e lingerie di pizzo nero aperta sul didietro a rivelare le natiche era stata gradevolmente ancorata a due ganci con un paio di bracciali di pelle nera dal suo partner, che le palpava ora il seno abbracciandola violentemente da dietro, strusciando il suo inguine decisamente in fase di eccitazione su quelle rotondità esposte e provocanti. Stavolta il vichingo aveva in mano un bicchiere di vino rosso, che sorseggiava maliziosamente come a presagire cosa sarebbe andato a fare di lì a poco; si avvicinò di nuovo alle mie gambe ancora aperte, poggiò il bicchiere poco distante, a terra, e cominciò a baciarmi i piedi, a leccarli, per salire minuziosamente verso i polpacci, l’interno coscia, continuando a massaggiarmi con le dita e i palmi, con la forza delicata di chi trasmette sinceramente un’emozione, di chi ti fa un dono, di chi si mette al tuo servizio per regalarti attimi di profonda liberazione senza chiedere nulla in cambio. Mi baciò con passione tutto quello che c’era da baciare, finché, arrivato all’inguine, discostò con le dita la peluria selvatica per appoggiare la sua bocca ancora saporosa di vino rosso sul mio clitoride turgido e le labbra bagnate, dandomi una scossa ascendente che arrivò fin su nella gola, tanto che lasciai uscire un piccolo grido. Rimase lì a leccarmi per qualche minuto, sempre con le mani sulle cosce a tenerle aperte e disponibili al suo ingresso (non che io stessi opponendo alcuna resistenza, anzi, ma quel gesto divaricatore mi dava la sensazione di compartecipazione, di supporto, rendendo il tutto davvero molto gratificante). Si ritirò per prendere da un tavolino di servizio poco distante un paio di guanti di latex, mentre lo seguivo con lo sguardo offuscato dalla intensità delle sensazioni che oramai mi possedevano, aspettando impaziente il suo ritorno. Mi sentivo così umida, così aperta ed esposta, immaginavo di avere un fiore al posto dei genitali e una sorgente di energia vitale che sgorgava da quel territorio prezioso, limpida, vivida, presente e incisiva, che nutriva tutto il mio essere fin nei posti più reconditi, nascosti e bui. Quei pochi passi che separavano la vecchia poltrona sulla quale ero sdraiata dal tavolino di servizio verso il quale il mio amato vichingo si era diretto mi sembrarono infiniti, tanto era oramai il desiderio di dare più vita a quella sorgente di profondo piacere, e al suo ritorno aprii ancor di più le gambe a dichiarare palesemente il mio oramai incontenibile desiderio. Lui sorrise, si aggiustò i guanti, e cominciò la risalita poggiando la sua mano appena fuori dai miei genitali, per poi entrarci senza mezzi termini direttamente in mezzo, nella carne bagnata e densa, giusto due dita in ascesa verso il paradiso. Quel vichingo dalle mani d’oro alternava ora le dita, ora di nuovo la bocca, nella sua stimolazione sensoriale del mio fiore oramai completamente aperto, violato, trapassato e umido, gettandomi in pasto a ripetute ondate contorcenti di quel piacere rosso denso e scuro, come il colore della pelle del trono sul cui ero sdraiata, come il colore dei miei capelli. Cominciai a lasciare uscire un suono, due, tre, a intervalli sempre più brevi e sempre più acuti e vibranti, stavo arrivando in vetta alla scala di intensità che quell’orgasmo imminente mi stava dando, incurvando ancora di più la schiena, oramai completamente distesa oltre il bracciolo, innalzando al soffitto il bacino con un piede puntato per lasciar fluire meglio la ventata interna di soddisfazione carnale su per la spina dorsale, il petto, la gola, la bocca, la sommità della testa riversa oramai quasi completamente verso il pavimento. Mi piace a volte, durante il climax, trattenere quell’espansione, quella risalita, tenerla giù nel ventre per farla crescere di intensità, ma quella volta era già talmente pervasiva che non potei opporre la minima resistenza. Gridai: un grido forte, aperto, che si sparse nell’aria lì attorno come un’esplosione, come un irraggiamento di energia sonora. Un sospiro, il petto ancora pieno di quella forza in espansione, la mia mano che ancora carezzava la peluria bagnata, gli occhi, bagnati anch’essi, che pian piano tornavano ad aprirsi, lasciando entrare lentamente la poca luce soffusa che illuminava discretamente la stanza. L’orgia dietro la colonna stava continuando ad accumulare partecipanti, la donna che prima era legata per i polsi all’altra colonna adesso era seduta poco distante sorseggiando vino rosso, un altro gruppo di persone stava assistendo a tutte quelle scene contemporaneamente mentre giacevano sdraiate su un altro divano proprio di fronte a me, sorseggiando anch’essi vino dai loro bicchieri. Pian piano, anche le sembianze del vichingo tornarono a essere nitide alla mia vista; era lì sorridente che mi guardava, sudato anche lui, ancora in ginocchio. Io lasciai andare la testa all’indietro in una risata liberatoria, gli presi la mano stringendogliela con forza; lui rispose alla stretta, esclamando con fierezza: -“I love your orgasm”.- -“Me too”-, risposi io, ancora mezza ansimante. Mi ricomposi, alzandomi lentamente da quella poltrona la cui seduta era ora più che mai incuneata verso il basso; c’era ancora la forma del mio sedere sopra, la pelle ancora calda e le pieghe evidenti. Diedi uno sguardo distratto all’orgia lì dietro alla colonna, che intanto proseguiva senza sosta; avevo un sorriso estatico in volto.  Mi diressi verso il bar: avevo bisogno di un altro bicchiere di vino. Alla fine, tutta quell’agitazione mi aveva messo sete. -“Red or white?”,- mi chiese il barista, col sorriso complice di chi riconosce un orgasmo appena goduto sul volto del suo avventore. Scostai casualmente i miei capelli rosso acceso dal viso. -“Well, red, obviously”-.