Attenzione: in questo racconto parlerò di alcune tematiche delicate come la depressione, il suicidio, i disturbi di personalità.
Se vi sentite turbati dagli argomenti sopracitati per cortesia vi invito a non continuare nella lettura.
Grazie.
Berlino, sono primi giorni di febbraio 2021, mi sembra incredibile come sia già passato circa un anno dall’arrivo del Corona virus. Qui nevica oramai da qualche giorno, la temperatura percepita è attorno ai -18°, le strade sono vuote e i negozi tutti chiusi, a parte quelli che vendono generi alimentari. Tutte le altre attività sono sospese, musei, cinema, palestre, scuole, e la città è oramai una città fantasma. È ancora obbligatorio indossare le mascherine, ovviamente per coprire naso e bocca, ma quelle generiche di stoffa non vanno più bene: ci si deve invece munire di un determinato tipo che sia caratterizzato da un codice alfanumerico specifico, FFP2, e indossarle ovunque. Si tratta in tutto e per tutto di mascherine ad uso medico, le quali costano in linea di massima più delle altre. Nei negozi sono andate immediatamente a ruba e le scorte sono finite presto, cosicché io, come tantissimi altri, ho dovuto comprarle online. Quando mi sono arrivate a casa, impacchettate singolarmente ma tutte stipate in un anonimo cartone marrone da imballaggi, ho potuto constatare come l’ironia della sorte del loro essere made in China le rendesse ancora più degli oggetti provenienti da una realtà totalmente distopica. Attualmente le mie giornate a casa passano tra il guardare serie Tv, disegnare, scrivere e preparare da mangiare; sento di avere molte poche energie da spendere, mi stanco subito se faccio qualcosa di diverso e mi manca lo slancio per protendere verso qualcosa di nuovo, che si tratti anche soltanto di immaginarlo con la mente. Vedo, e sento, anche molto stanco il mio corpo; il viso è spento, la pelle secca, le occhiaie persistenti e profonde e le spalle pesanti, ed ho perso del tutto qualsiasi fantasia anche lontanamente erotica. Il solo pensiero di uno scambio di natura sessuale con qualcuno mi appare aberrante, mi percepisco spenta, galleggiante in una zona grigia e anonima, trascurata, ed inaccettabile agli occhi sia miei che di qualcun altro. Tanto meno poi vorrei consumare uno di quei rapporti usa e getta ai quali gli abitanti di questa città sembravano così tanto abituati prima del delirio globale dovuto al Corona virus, uno di quei rapporti per cui si cerca nei partner occasionali l’effimera sensazione dell’edonismo, il più delle volte con voracità da consumismo contemporaneo misto magari ad uno, o più veli, di narcisismo. Mi viene il voltastomaco anche solo a pensarci. In realtà non ho niente in contrario, io stessa in passato mi sono trovata a vivere, anche creandone alcune in prima persona, situazioni del genere, ma ora tutto ciò risuonerebbe come qualcosa di completamente stonato per la partitura musicale delle mie sensazioni ed emozioni attuali. Nelle rarissime volte in cui cerco un’auto gratificazione, poi, che somiglia più ad un volersi liberare istericamente di un qualche carico di silenzioso stress compresso ed accumulato durante questi tempi incerti e bui, non riesco ad esimermi dallo scoppiare in un pianto finale, singhiozzando e prendendo la testa tra le mani, continuando tra i singulti finché non riesco a riprendere lentamente il controllo, e a calmarmi. Una tragedia. C’è da dire, però, che non è stato soltanto l’isolamento, che oramai si protrae quasi da un anno, ad avermi fatta naufragare in questa situazione: gli ultimi due anni che ho vissuto sono stati, se presi per sé stessi, emotivamente molto duri per me, contrariamente ai primi periodi della mia permanenza qui a Berlino passati nella costante ricerca attiva di nuove esperienze. È come se il propellente energetico interiore, generatosi durante quel cambio completo di vita fatto alla soglia dei 40 anni, si sia andato via via esaurendo, lasciandomi più scoperta e vulnerabile agli imprevisti. Nella fattispecie, in questi ultimi due anni si sono affacciate nella mia vita due figure maschili che hanno avuto un effetto devastante, le quali, osservandole con attenzione, sembrano addirittura avere dei tratti in comune. Il primo di loro lo avevo incontrato qui a Berlino alla fine dell’estate 2019, mi aveva contattata scrivendomi online per via di alcune delle foto per le quali avevo fatto da modella e che avevo pubblicato in rete su diverse piattaforme, facendo molti apprezzamenti sul lavoro fotografico di quelle immagini ed instaurando immediatamente, tramite una certa maniera di conversare posata ed intelligente, un dialogo dai toni molto personali. Era un appassionato d’arte, ed amava collezionare immagini di persone, soprattutto provenienti dal mondo della sessualità BDSM. Mi scrisse attraverso FetLife, un social network kinky, nel quale si ha una propria pagina con un’immagine del profilo, una galleria di foto e abbastanza spazio per descrivere sé stessi. Dalla sua foto del profilo rimasi immediatamente folgorata, aveva l’aspetto di un uomo veramente affascinante, senza dubbio alcuno oltre la cinquantina, occhiali, capelli rasati, spalle grandi, collo largo, mandibola pronunciata, e dalle altre foto presenti nella sua galleria sembrava avere un fisico ben curato. La comunicazione scorreva abbastanza fluida, sebbene comunicassimo in inglese (lui è tedesco); i temi affrontati erano accattivanti, non banali, e denotavano una certa ricerca artistica e personale nei suoi toni. Nella sua pagina FetLife, nello spazio destinato alla descrizione di sé, c’erano in realtà pochissime parole, tra le quali quelle con cui dichiarava apertamente di essere sieropositivo. Specificava anche che era un sieropositivo trattato con successo (il che significa che i farmaci assunti regolarmente dalle persone positive riducono la carica virale a zero e rendono impossibile sia lo sviluppo della malattia, sia la trasmissione del virus ad altri individui), rimandando per ulteriori informazioni ad un link, che reindirizzava i visitatori alla pagina del sito dell’organo sanitario tedesco che si occupa di questo tema. Io non ne sapevo molto, ma avevo letto, tempo prima, alcuni articoli a riguardo, visto che una coppia di mia conoscenza qui a Berlino, formata da un ragazzo sieropositivo (anch’egli trattato con successo) e da una ragazza che non lo era, aveva iniziato a fare divulgazione di articoli informativi contro quello che è lo stigma che circonda questo argomento, pubblicando interviste ed altro materiale informativo sui loro canali social. I sieropositivi che vengono trattati con i farmaci appositi vanno incontro a controlli medici molto frequenti, conducono delle vite assolutamente normali, hanno rapporti sessuali con i propri partner, possono avere figli che non contrarranno il virus, lavorano, e sono completamente integrati nella società. Durante le conversazioni scritte con quell’uomo, comunque, il tema non venne mai fuori. Parlammo invece di quello che erano state alcune storie personali, sia mie che sue, mi disse che era stato uno sportivo professionista in passato, poi, con l’avanzare dell’età la pratica si era fatta meno frequente, e recentemente stava diminuendo di molto. Ad un certo punto, dopo che si era instaurata una certa confidenza quantomeno verbale, mi disse che avrebbe avuto piacere nell’incontrarmi di persona e mi invitò a raggiungerlo a casa sua, in un vecchio quartiere della Berlino est. Ed io andai. Suonai in maniera impeccabilmente puntuale il suo campanello quel giorno, e dopo pochi istanti lui venne ad aprire la porta principale sorridente, vestito con dei jeans ed una felpa blu scuro, indossando delle pantofole da casa ai piedi; portava gli occhiali ed era rasato di fresco, sia la barba che i capelli non erano più lunghi di 2-3 mm. Aveva anche un buon profumo. Di persona si poteva capire molto bene che era stato uno sportivo, era palese che il suo corpo era ancora allenato e che le fondamenta di quei risultati erano state gettate fin dalla tenera età, il che gli permetteva ancora di godere di un’eccellente presenza. Era più alto di me, direi intorno al metro e ottantacinque, forse un metro e novanta. Entrai nel suo appartamento, l’ingresso dava immediatamente sulla cucina, l’ambiente era accogliente, dai toni pacati, pastello. C’erano molte foto appese alle pareti, molte delle quali erano ritratti di donne, in diverse pose; in fondo alla stanza una finestra con delle tendine bianche dava luce ad un piccolo tavolino quadrato, posizionato proprio davanti ad essa con giusto due sedie. Sembrava proprio che sarebbe stato quello il luogo nel quale avremmo cominciato la conversazione. Ci sedemmo lì in effetti, e parlammo per un paio d’ore davanti ad un the e dei biscotti. Mi raccontò alcuni episodi della sua vita da sportivo, assieme a come, ad un certo punto, aveva contratto il virus dell’HIV: era accaduto durante il periodo di tempo nel quale, mi spiegò, aveva frequentato la scena gay della città. Mi spiegò doviziosamente che una delle sue fantasie ricorrenti era che amava immergersi in scenari di dominazione e sottomissione, dalla parte del sottomesso e cedere il controllo a uomini dominanti; per questo motivo, anni addietro, aveva instaurato delle relazioni ricorrenti con alcuni Master, e fatto con essi sesso non protetto. Mi raccontò anche di come era molto ambito e venerato nell’ambiente gay per via del suo aspetto e della sua prestanza fisica ma di come, eccetto per quei pochi anni durante i quali aveva praticato, non si considerava completamente omosessuale: per esempio, ci tenne a ribadire, non sarebbe mai riuscito a baciare un uomo e la sola idea gli provocava una sensazione di disgusto. Mi disse che avrebbe potuto intrattenere rapporti personali ed emotivi soltanto con le donne, e che era stato sposato svariate volte ma che non aveva mai avuto figli. Io lo ascoltavo, senza alcun preconcetto o giudizio, lasciando scorrere quel fiume di parole nell’aria, mentre il tempo scivolava via in maniera morbida, quai ovattata. Mi disse anche che viveva in quella casa soltanto da un paio di anni e mi raccontò di come, per qualche motivo non ben chiaro, si era allontanato da tutte le conoscenze che aveva avuto fino ad allora. Niente più amici da visitare o invitare, non intratteneva nessuna frequentazione al di fuori di quelle lavorative, ed era lentamente scivolato in quell’isolamento nel quale passava le sue giornate a pensare, quando non era al lavoro, in solitaria, seduto a quel tavolino, a guardare fuori dalla finestra, o a leggere libri. Io riuscivo a capirlo molto bene, soprattutto quando parlava di isolamento e solitudine. Raccontò anche di come si trovava a dare valore alle cose accadute nella sua vita solo dopo che le aveva perdute, e che il passare del tempo, nella sua visione, dava un certo fascino alle cose. Mi rivelò anche che non si sentiva affatto turbato dall’essersi allontanato dalla vita mondana e di quanto non gli mancasse quello che faceva prima. Ad un certo punto, come a spezzare il ritmo dei suoi racconti con qualcosa che appartenesse di più al presente, venni invitata a rimanere per la cena, invito che accettai di buon grado. Percepivo bene il fascino di quell’uomo ora che ce lo avevo finalmente davanti. Durante le nostre conversazioni online, come probabilmente a molti accade da quando l’avvento di internet ha reso le interazioni virtuali una realtà, avevo immaginato che fosse la sua foto a parlare, guardandola di tanto in tanto mentre ci scrivevamo. La colloquialità nella vita reale ricalcava i nostri precedenti scambi di parole avvenuti in rete, anche se, come spesso accade, essendo io molto più predisposta all’ascolto che al tirare fuori immediatamente le mie storie o i miei punti di vista, era maggiormente lui che parlava. Si alzò dal piccolo tavolino quadrato dunque, e si mise a preparare la cena. Io lo osservavo, a tratti nella stanza cadeva il silenzio ma non era un silenzio che mi metteva a disagio, anzi. Mangiammo della carne al forno e dei panini che aveva lui stesso cucinato, con un’insalata mista; c’era anche una bottiglia di vino rosso sul tavolo durante quel pasto, e quell’uomo, mentre continuavamo a conversare, cominciò a berne, dapprima a piccoli sorsi poi mandando giù delle boccate più piene, dei bicchieri quasi interi, che erano prima due, poi tre, poi quattro, finendo la bottiglia. Ci feci caso ma era un qualcosa che stava scivolando dietro gli altri pensieri che si stavano lentamente affacciando alla mia mente, pensieri decisamene più sconci, fatti di pelle, di sudore, di odori personali. Difatti, una volta terminata la cena, finimmo a letto. Il corpo di quell’uomo era incredibile. La natura lo aveva dotato non solo di una ottima prestanza fisica ma anche di svariati centimetri, sia in altezza che in larghezza, lì dove non batte il sole. Ma in tutto questo idillio devo proprio ammetterlo, era rigido. E non solo dove avrebbe dovuto (e posso assicurare che lo era, eccome se lo era) essere, ma intendo nelle movenze, era difficile per me fondermi completamente con lui mentre rotolavamo sul letto, in preda a quell’euforia del trovarsi carne su carne dopo essersi assaporati per mesi soltanto a parole, in lontananza. Ma nel complesso la cosa funzionava, e lo volli apertamente urlare al cielo, ad un certo punto. Mentre eravamo ancora a letto, rintontiti da tutto quel movimento, mi disse che se volevo sarei potuta rimanere a dormire con lui, ed io acconsentii. Dormimmo abbracciati, ancora vicini col ritmo dei cuori alterato dall’eccitazione, e la mattina continuammo a cercarci, a toccarci, ad annusarci. Appena trovai le forze per alzarmi da quel letto, tornai verso casa, stordita. Cominciammo quindi, da quel momento in poi, ad intrattenere una intensa e fitta corrispondenza: lui mi scriveva spesso a notte fonda, visto che, a quanto pareva, a volte soffriva di un disturbo del sonno. Io la mattina, non appena aprivo gli occhi ancora a letto, leggevo sempre i suoi messaggi e gli rispondevo, messaggi che a volte erano anche molto lunghi ed articolati, segno evidente che durante la notte era probabilmente il lavorio mentale a tenerlo sveglio. Iniziamo anche a vederci spesso, a volte bastava anche solo un messaggio inviato all’ora di pranzo che nel giro di un’ora ci incontravamo da qualche parte, che fosse stato fuori per una passeggiata o a casa sua per un caffè, delle chiacchiere e del sesso. Quando eravamo fuori a camminare per strada mi prendeva sempre la mano, se eravamo seduti in metropolitana mi circondava col suo braccio e portava la mia testa sulla sua spalla, mi accompagnava alla fermata del bus quando ripartivo da casa sua e mi baciava prima che salissi sull’autobus, faceva le foto al piccolo tavolino sotto la finestra della sua cucina quando era apparecchiato con le candele per le cene che consumavamo (prima di consumare altro) e me le inviava, insomma, sembrava un quadretto perfetto di quotidiana condivisione relazionale, ma senza alcuna dichiarazione ufficiale. Era a tratti bello, ma sottilmente inquietante allo stesso tempo, per un motivo che allora non mi sapevo spiegare. Il sesso funzionava bene ma c’era sempre quella rigidità di fondo, che a volte non capivo se fosse culturale o derivante da dei lati personali interiori magari non esattamente palesi. Però era ugualmente intrigante, tanto che durante una delle volte che eravamo assieme a letto provai una sensazione mai provata fino ad allora: credo che sia stato l’orgasmo più potente ed intenso mai provato, o almeno il più insolito: rimasi, per un tempo imprecisato, sdraiata a pancia in giù, dopo essere stata completamente pervasa da questa onda incontenibile di energia esplosiva durata anche piuttosto a lungo, non riuscendo più a muovermi. Era come se il mio corpo non esistesse più, non avesse più confini, come se fosse improvvisamente balzato in una dimensione parallela dove lo spazio ed il tempo non esistevano, ed io vi fossi rimasta dentro come spettatrice del fenomeno, senza però avere alcuna presa sulla carne. Pensai, banalmente, di essere morta. Lui giaceva al mio fianco, anch’esso stremato e silenzioso, ma tornai a percepirlo solo dopo qualche istante. La nostra frequentazione durò con questa intensità giusto un paio di mesi, poi, dal nulla, quell’uomo cominciò a scrivermi testi con un senso non ben definito, nei quali principiava a parlare di argomenti dal retrogusto vagamente depressivo ed oscuro. Cominciò a parlarmi di morte, di decadenza e di suicidio, oramai, quando eravamo assieme, ogni pretesto era buono per tirare fuori l’argomento e rimanere alcuni minuti in silenzio, lasciando lo sguardo evaporare senza meta per la stanza, il che era, per me che ero lì ad assistere a questa cosa, sottilmente angosciante. Mi disse che avrebbe voluto sapere cosa succedeva quando qualcuno sarebbe morto e che avrebbe voluto assistere personalmente al processo; mi parlò anche di un artista vissuto qui a Berlino, artista che ad un certo punto decise di suicidarsi con la compagna, sparando prima a lei e poi togliendosi esso stesso la vita, e me lo disse guardandomi come a sondare nel mio sguardo la reazione, come se stesse cercando approvazione per la sua ammirazione o una possibile compagnia per ripetere quella scena. Oramai piombava spesso, durante quelle volte in cui ci vedevamo, ricurvo su sé stesso, in un’apatia che degenerava in lunghi silenzi e gli occhi spenti, lasciandomi spettatrice attonita di quella scena dilatata, lugubre, senza vibrazione alcuna; a volte lo faceva dopo che si era bevuto minimo due bottiglie di vino da solo, in tre-quattro sorsate riempiendo dei bicchieri grandi da cocktail che scolava quasi tutti in una volta. Una sera uscì con me che ritornavo verso casa per andare a comprare ulteriormente del vino in un supermercato di una stazione della metro ad un paio di fermate da casa sua, saranno state le dieci. I rapporti sessuali cessarono di botto, così come le “smancerie” ed i messaggi. Cominciò invece a farmi vedere delle foto che si era scattato con una corda al collo, e mi disse che impiccarsi sarebbe stato sicuramente un buon modo per morire, lasciandosi ciondolare sotto gli occhi di tutti al di fuori di una finestra, magari nudo e con un’erezione. Era letteralmente ossessionato dalla morte, non c’era nient’altro più nella sua vita, ed io ero dannatamente a disagio, mi sentivo completamente paralizzata da ciò che stava accadendo. L’ultima volta che ci vedemmo lasciai casa sua in uno stato alterato dato da rabbia, confusione, spavento e delusione. Lo feci dopo che avevamo speso almeno un’ora seduti sul divano con lui ubriaco fradicio, con lo sguardo assente, incapace di pronunciare anche una sola parola ed io lì, ad assistere a quello scempio, testimone involontaria. Gli chiesi ad un certo punto cosa ci stavo a fare lì, secondo lui, perché sarei dovuta essere la spettatrice di quell’atto di autolesionismo, e le poche parole incomprensibili e senza senso biascicate fuori da quelle labbra, che un tempo baciavo con ardore, mi fecero infuriare. Gli diedi uno schiaffo per cercare di riportarlo al presente, poi, non ottenuto alcun effetto, mi alzai dal divano, presi le mie cose, e sparii nel buio della sera. Era come se tutto ad un tratto quella sensazione di vaga inquietudine che provavo avesse finalmente un senso, come se mi fossi resa conto che ciò che era avvenuto prima fosse stato soltanto finzione, solo una trappola tesa da quell’uomo per impossessarsi dell’attenzione di qualcuno, dopo molto tempo passato in isolamento, qualcuno di cui cibarsi, con cui riempire un vuoto, con cui imbastire dapprima la facciata tremolante di una quotidianità in realtà non esistente, per poi ricadere nel limbo senza confini di un horror vacui dilagante, un buco nero che inghiotte qualsiasi cosa o persona che gli si avvicini. Il giorno dopo, però, mi sentii in colpa, e quello dopo ancora pure. Perché capivo che la sua era una condizione sbilanciata, di disagio, e il suo modo di interagire un tentativo estremo di rimanere, paradossalmente, in vita; allo stesso modo, però, sapevo benissimo che non potevo lasciare che venissi fagocitata in quel delirio e che si appropriasse della mia energia per alimentare la sua visione distorta. Gli scrissi per chiedergli comunque scusa dello schiaffo e gli dissi che mi dispiaceva per l’accaduto; aggiunsi che non mi aspettavo di dover fare i conti con quel suo lato della personalità, e gli chiesi di poter almeno parlare per chiarire la cosa. La sua reazione fu terrificante, mi rispose in tedesco con una freddezza tagliente e disarmante, come se gli avessi fatto un torto, appunto, mortale. Non importava quanto io mi fossi sentita manipolata e a disagio in quelle situazioni, non importava se quello che volevo io era godere della presenza di qualcuno che vuole attivamente stare bene assieme a me e gioirne, piuttosto che dover assistere a quegli spettacoli raccapriccianti ai quali non ho mai richiesto di partecipare; io, le mie emozioni, i miei desideri ed i miei bisogni non esistevamo più, c’era solo quella risposta in tedesco brutale che mi faceva sentire tutto il disprezzo che quell’uomo avesse potuto provare nei miei confronti che mi crollava addosso come una inarrestabile valanga. Ed il suo tentativo, riuscito, di farmi sentire ancora più in colpa. E poi da lì il silenzio, quello si, lugubre. E immediatamente dopo, dalle foto sul suo profilo su quel social network dal quale mi aveva contattata la prima volta, vidi che aveva iniziato a frequentare subito un’altra donna, presumibilmente cercando di succhiare ancora attenzioni preziose da qualcun’altra, visto che le mie si erano dissipate ed il fiore nato in quel macabro scenario si era, ovviamente, già appassito. Donna alla quale, probabilmente, venni descritta come un mostro, come se fossi stata io la sola responsabile delle sue sofferenze. Persi completamente la testa. Passai i mesi successivi rimanendo spesso raggomitolata per ore a letto, inerme, svuotata di qualsiasi forza, piangendo senza sosta, sentendomi catturata in un circolo vizioso che mi intossicava, che mi consumava da dentro e contro il quale non avevo strumenti alcuni, potendogli solo soccombere. Finché un giorno, dal niente, iniziai a disegnare. E lo feci usando una normalissima penna nera, una Bic, di quelle che costano 40 cent l’una, vomitando fuori in maniera compulsiva i mostri e gli spettri che mi erano stati inoculati da quell’uomo, e disegnai la prima serie dei miei Dark DrawingX, chiamata “Eros e Thanatos”. I miei disegni sono raccolti qui e qui (instagram) Sembrava, per assurdo e metaforicamente parlando, che quell’uomo mi avesse inseminata con lo spettro della morte che portava in sé, ed io, dopo una lunga, terrifica e dolorosa gestazione, stessi dando alla luce quei mostri, mettendoli al mondo su carta. Questo avveniva nell’autunno/inverno tra il 2019 ed il 2020, circa un anno fa, quindi, da quando sto scrivendo queste righe. A marzo 2020 arrivò il primo lockdown a causa del Corona Virus. Da lì in poi, avendo tempo da dedicare a me stessa e rimanendo, come quasi tutti, isolata dal resto, cominciai una lenta risalita, rigenerando pian piano energie e continuando sempre a disegnare, e a scrivere. Passarono pochi mesi (credo fosse Aprile o Maggio), quando un altro uomo fece capolino nella mia vita, ed il primo approccio avvenne sempre tramite internet, allora già divenuto quasi l’unico canale di contatto tra le persone, tutte chiuse in casa. Stavolta però lo scenario di partenza era diverso: quest’uomo era italiano, e mi aveva contattata per avere delle sessioni online proprio durante quei mesi nei quali non era possibile incontrare fisicamente gli altri ed avere contatti alcuni con loro. Ho già scritto di questa storia, qui: “Virtualmente tua” Nei mesi successivi a quanto già raccontato ho potuto rendermi conto, pian piano, di come sia stato devastante l’effetto del passaggio nella mia vita di questo secondo uomo.Io non amo gli stereotipi, anzi, cerco in tutti i modi di rifuggirli, ma devo ammettere, col senno di poi, che queste due persone hanno dei tratti in comune, ed il notarlo per me è disarmante a tal punto che devo per forza accettarlo. Stessa età, alti più o meno uguale, rasati, fattezze del viso vagamente simili. Entrambi provenienti da un periodo di isolamento e solitudine, entrambi con molte relazioni finite alle spalle, entrambi attratti dalle esperienze omosessuali ma che si definivano legati comunque al femminile per la sfera delle relazioni, la differenza era che il secondo uomo aveva dei figli ed il primo no. Tutti e due sembravano avere un bisogno disperato di attenzioni, di mostrarsi, di nutrirsi della presenza di qualcuno per risalire a galla dopo aver visitato l’abisso, ed aver riportato su con loro il sentore della decadenza e della disperazione. Entrambi sembravano avere (idealmente) bisogno di attaccarsi al mio seno e succhiare nuova linfa vitale, anche se in maniera diversa: il primo uomo lo aveva fatto come se fosse stato un vampiro, per nutrire la sua apparentemente inevitabile condizione di “già morto” ancora nel mondo dei vivi, il secondo per qualcosa che pareva legato al suo rapporto con la madre e la sua voglia di riprendersi un rapporto col femminile dove avrebbe ricevuto il nutrimento e l’accettazione che sentiva che gli era stato invece negato dalla genitrice. Ricordo bene che il secondo uomo, durante il primo periodo della nostra relazione professionale nel quale ci sentivamo per queste sessioni online, mi disse che c’era una delle mie foto che lo aveva attratto particolarmente, per quello che rappresentava: l’abbandono tra le mie braccia della ragazza che avevo finito di legare da poco, stremata dalla dura prova alla quale si era sottoposta, trovando me, alla fine, ad accoglierla, sorridente. Ecco, lui si sentiva esattamente in cerca di quello, il potersi abbandonare, incondizionatamente, a qualcuna, dopo la tempesta. Ed io feci in modo che questo accadesse. Ci sentivamo per telefono molto spesso, all’inizio in maniera, appunto, professionale (lui mi raccontava delle sue fantasie, io creavo gli scenari per realizzarle, almeno a parole), poi, pian piano, cominciò a parlarmi anche di alcuni aspetti della sua vita privata. Le conversazioni erano ricche, intense, era piacevole e stimolante sentirlo raccontare le sue fantasie; inoltre, approcciai i temi del suo privato sempre con delicatezza, ascoltando tutto quello che raccontava, mai giudicando nulla o interferendo, anzi, ritengo di aver apportato sostegno e molta, molta comprensione. Il tema portante delle sessioni era il suo desiderio di soddisfare altri uomini, oralmente, per cui ci immergemmo sia nei suoi racconti di quando questo era successo nella vita reale, sia negli scenari che io gli proponevo per giocarci sopra con la fantasia. E funzionava tutto molto bene, anche troppo. Ci trovammo ben presto ad essere molto intimi, anche se ci sentivamo solo a voce o tramite chat e per delle sessioni che, in fondo, lui mi stava pagando. Con l’andare del tempo si stava anche sviluppando, parallelamente, una forte connessione ed attrazione personale. Ci teneva spesso a dirmi che con me si trovava molto bene, e che si sentiva libero di esprimersi, finché, ad un certo punto, ci ritrovammo più intimi del dovuto, ed una delle sessioni di gioco si trasformò in uno scenario reale e personale, che ci vide sessualmente coinvolti al di fuori del percorso professionale. Fu bello e appagante, anche se vissuto in lontananza ed in maniera virtuale, e da lì in poi cominciammo a sentirci in maniera informale, proseguendo in quel gioco erotico che si era instaurato. Rimanevamo al telefono tre, quattro ore, ci scrivevamo spesso durante il giorno, se potevamo ci chiamavamo. Era spiazzante per me, ed ero felice che quest’uomo fosse arrivato nella mia vita, dopo l’esperienza traumatica con l’altro, avvenuta solo pochi mesi prima. Pensavo che fosse una sorta di benedizione, e ringraziai qualsiasi movimento nell’universo che avesse fatto in modo di condurlo a me. Incappammo in una specie di diverbio ad un certo punto, dopo il quale mi ritrovai di nuovo a disegnare. Stavolta si trattava di un’immagine di uno di quei pupazzi di legno di Pinocchio che tanto si vedevano in giro quando ero bambina, ma smontato, rotto, che rappresentava, nella mia mente, me stessa ferita per il diverbio, rotta. Volevo rappresentare un qualcosa che aveva perso la sua struttura, e volevo dirgli, usando la mia arte, che mi sentivo così per via del diverbio avuto con lui. Rispose che questo disegno sembrava suggerirgli che io gli stessi dicendo che era un bugiardo, visto il personaggio raffigurato, e dopo diversi tentativi di spiegargli il mio punto di vista, il discorso cadde nel dimenticatoio. La crisi, comunque, si risolse dopo qualche giorno con un inaspettato cambio di prospettiva, dove ero io che mi mettevo nelle sue mani, porgendogli le mie scuse e dandogli tutta la fiducia che potessi dargli, lasciandomi guidare in altri tipi di scenari. Questo gli diede molta forza ed il suo umore ne risentì, era palese, ed anche il mio. Si era sempre felici di sentirci, si scherzava, l’atmosfera che si creava tra i due telefoni era frizzante, a volte bollente ed erotica, ma anche spassionatamente personale, mai banale, anzi. Gli parlai in maniera aperta anche dei miei dubbi, però, del fatto che se qualcuno arrivava così vicino a me e alla mia intimità personale mi sarebbe piaciuto che quel colui rimanesse, e che preferivo che le persone mi pagassero per i miei servizi piuttosto che scoprirmi così, emotivamente parlando, se avessi saputo che la cosa aveva solo la natura di un intrattenimento. Mi disse che assolutamente non si stava solo divertendo e che se avesse voluto soltanto avere dei rapporti sessuali avrebbe saputo a chi rivolgersi, ed io gli credetti. Ma a parte l’idillio delle parole e quello che succedeva nelle rispettive stanze quando ci sentivamo, la distanza cominciava a diventare un problema per me, e gli parlai anche di questo. C’è da dire che vivere in due nazioni diverse (anche se gli spostamenti, approfittando dei viaggi aerei, non sarebbero stati così impegnativi in termini perlomeno di tempo) e la situazione attuale del Corona non facilitavano l’idea dell’incontro fisico, ma a me, personalmente, non ha mai neanche sfiorata l’idea di rinunciare per questo motivo, anzi, era un incentivo per sentirmi viva e continuare a nutrire qualcosa che faceva stare bene a entrambi. Lui invece non sembrava voler dare risposta a questo mio questionare, era sempre piuttosto evasivo affrontando il tema e glissava immediatamente su altre tematiche, cercando di spostare l’attenzione. Arrivò comunque un punto nel quale sentii palesemente che c’era qualcosa che per me non andava, e di nuovo, glielo dissi apertamente. Perché l’apertura ed una comunicazione trasparente ed onesta sembravano essere un tema portante di questa relazione telefonica, avevamo sempre affrontato i temi più disparati trovando sempre dei punti in comune e per questo io mi fidavo molto di lui. In questo momento, che si rivelò critico, era passato da poco il mio compleanno, e da qualche tempo, oramai, lui aveva iniziato a parlarmi, in maniera forse indiretta rispetto a come me ne parlava il primo uomo, di morte, di tempo che passa e della sua impossibilità di provare qualcosa per più di un breve lasso di tempo, fino a dirmi che neanche il sorriso dei suoi figli poteva dargli più di qualche attimo di gioia. Mi raccontava di come si sentiva vuoto e di come non lascia avvicinare nessuno, tantomeno figure femminili. Per di più, le donne con le quali aveva intessuto relazioni negli ultimi anni erano tutte donne non disponibili, sposate, che non avrebbero potuto avanzare nessuna pretesa o chiedergli “qualcosa di più”. I suoi discorsi avevano sempre più il sapore dell’amarezza, quasi rassegnazione, mancavano di prospettiva, di impulso, il che mi fece sobbalzare nuovamente, probabilmente anche per quello che avevo passato fino a poco tempo prima. Si palesò nuovamente lo spettro di essere stata usata solo per riempire, stavolta addirittura a distanza, un vuoto creatosi nella vita di quest’uomo dalle difficoltà vissute negli ultimi anni, e che quello che a me stava più a cuore, ovvero incontrarlo nella vita reale, per lui non era assolutamente importante, anzi, era qualcosa da evitare. Gli dissi apertamente, un paio di giorni dopo il mio compleanno, che, forse, per me sarebbe stato meglio se mi fossi fatta da parte, visto che non sentivo da parte sua questo desiderio di approfondire la conoscenza e che avevo la sensazione che lui non potesse darmi quello di cui avevo bisogno. Un fulmine a ciel sereno. Divenne immediatamente così aggressivo nei mei confronti che ho faticato a rimanere lucida, tanta la brutalità e la cattiveria che d’improvviso mi arrivarono addosso. Mi disse che non mi sarei mai potuta aspettare altro da lui, che la distanza sarebbe stata sempre un problema, che lui non lasciava avvicinare nessuno, che mi ero messa io in gioco e che non potevo chiedergli nulla. E che nessuno poteva dirgli cosa fare. Mi disse che non voleva soffrire ancora e che non voleva affatto relazioni a distanza; mi disse anche qualcosa senza fondamento alcuno che mi ferì molto, ovvero che non lo avrei allontanato dai suoi figli, mettendomi così indirettamente a confronto con una realtà che non mi apparteneva, di cui non conoscevo nulla, e facendomi sentire una specie di mostro che non ero. Tornò anche anche a dire che il disegno di Pinocchio che avevo fatto non gli era andato giù e che lo avevo rappresentato come un bugiardo, decidendo per me quale fosse stato il significato di un disegno che io avevo creato e ideato in base ai miei sentimenti, e che nulla aveva a che fare con quello di cui lui si sentiva accusato. Era come se fosse un’altra persona a parlarmi, non lo riconoscevo affatto, non più. Continuai a scrivergli, dicendogli evidentemente cose che lo hanno fatto maggiormente stizzire, ma che mai sono uscite dalla mia bocca con l’intento di urtarlo in qualsiasi maniera, volevo difendermi, volevo spiegarmi, volevo dirgli che lo capivo se avesse avuto delle difficoltà, ma questo sembrava offenderlo in qualche modo. Gli dissi che sentivo che non poteva darmi quello di cui avevo bisogno perché era evidentemente scarico di energie per la vita che conduceva, per il lavoro, per il doversi comunque occupare ancora dei figli, per essersi dedicato negli ultimi anni alla malattia di uno dei due genitori e per il fatto che fosse palese che questo gli era costato molto in termini di risorse energetiche, considerando il fatto che erano tutte cose di cui lui stesso mi aveva parlato. Gli dissi anche che secondo me il suo non voler soffrire ancora veniva dal fatto di non voler affrontare le cose andategli male in passato, ma non capivo perché rispondeva a ciò che gli dicevo in maniera così violenta, era completamente assurdo per me che non riuscissi a farmi capire. Ma sembrava che nessuna parola che io dicessi arrivasse alle sue orecchie col senso col quale era uscita dalla mia bocca. È stato tremendo, mi sono sentita scaraventata via da colui il quale aveva avuto la mia fiducia piena, al quale mi ero raccomandata più e più volte, mi sono sentita svalutata, impossibilitata a parlare, condannata per cose che non avevo mai detto o fatto. Mi disse più e più volte che lo avevo insultato, mi ripetè che nessuno gli avrebbe mai detto cosa dovesse fare. E io sono sicura di non aver mai fatto nessuna delle due cose, ci metto la mano sul fuoco. Tutto ciò che mi stava a cuore in quel momento era fargli capire quanto io mi sentissi coinvolta ma consapevole che non potessi avere da lui ciò che volevo, ed il fatto che non sentisse il desiderio di incontrarmi ma volesse tenermi così a distanza anche se era anche lui molto coinvolto mi faceva sbarellare. E quel coinvolgimento emotivo, per me già divenuto troppo grande da gestire così a distanza, stava diventando davvero difficile da affrontare. Distanza che sembrava non poter essere accorciata, né allora, né mai più. Gli chiesi di poter parlare, ed una chiamata mi è stata sempre negata. Ho aspettato settimane intere che rispondesse ai miei messaggi, si è dileguato con la velocità di un missile con il semplice gesto di chiudere una chiamata telefonica, svanendo da tutto ciò che ci aveva visti complici, restituendomi ad un certo punto un “grazie di tutto, ma nessuno mi dice cosa fare, addio” che mi ha letteralmente uccisa e privata di ogni dignità, di ogni rispetto, gettandomi ko al tappeto senza possibilità alcuna di rialzarmi. È stato devastante, e lo è ancora. E tutto questo durante il lockdown, quindi con ancora meno possibilità di reagire, di respirare aria diversa, di guarire, di avere gli amici vicino e di continuare le mie attività, nelle quali avrei potuto quantomeno cercare di catalizzare la mia attenzione distogliendola da tanto dolore. Ho provato a scrivergli ancora, chiedendogli nuovamente di parlare. La risposta è stata tagliente, secca, brutale, dicendomi che non aveva né intenzione né interesse di riprendere la comunicazione con me e che non dovevo più scrivergli. A nulla sono servite le mie innumerevoli scuse, semmai quello che avessi detto lo avesse veramente offeso, ma mai ho avuto alcuna intenzione di insultarlo. Ero pronta a farmi dire cosa avessi sbagliato, sono sicura di avere tutti gli strumenti per affrontare una crisi del genere mettendo le carte scoperte in tavola, confrontandomi con l’altro, usando anche quello che è la mia ricerca nel mondo del BDSM per ristabilire l’equilibrio. Ma la sua risposta è stata sempre che oramai quelle cose le avevo dette e non serviva a nulla scusarsi, come se mi stesse condannando per qualcosa che non sapevo neanche io cosa fosse. Non riesco ancora a darmi una spiegazione a tutto questo se non l’essere stata ancora usata per riempire un vuoto, l’essere stata solo una figura immaginaria all’altro capo del telefono, un non luogo virtuale dove gettare delle proiezioni personali, senza la possibilità di reclamare i miei desideri, le mie necessità, un modo dell’altro per avere attenzioni disinteressate che andassero oltre la barriera di quelle che si possono avere in un rapporto soltanto professionale. Sono sicura che non sono io ad aver voluto di più, è lui. E anche sapendo che non si sarebbe mai potuto permettere di dare in cambio quello di cui io, o qualcun’altra, avessimo mai avuto bisogno, lui quel “di più” se lo è preso lo stesso, nutrendosene poi per continuare indisturbato a vivere la sua vita, lontano da qui, ma forse ancora lontano da tutti, buttandosi dietro un’altra carcassa, un altro giocattolo che si è rotto dal quale non può più prendere nulla per nutrire il suo sé. Chissà se anche lui ha trovato immediatamente dopo qualcun’altra da cui prenderlo, quel “di più” così prezioso. Immagino di si. Mi sento rifiutata, azzittita, privata di ogni diritto, spogliata e derisa, umiliata, mi sento mostruosamente fuori luogo, orribile, non riesco a guardarmi allo specchio, non penso di meritarmi altro che questo. Ridatemi i giorni passati ridendo e scherzando, con leggerezza, ridatemi i viaggi della fantasia immersi negli scenari più bizzarri, ridatemi la sensazione di fiducia che pensavo di aver riposto in buone mani, ridatemi l’idea che l’arrivo di quest’uomo fosse stata una benedizione, ridatemi gli orgasmi alla fine dei quali ridevo, invece che quelli dove scoppio sempre in lacrime con la testa tra le mani. Ma non accade nulla più di tutto questo. Mi domando perché io attragga questo tipo di persone, cosa faccia per arrivare a ricreare ancora queste situazioni, dove è che sbaglio, dove è che mi perdo e perché il loro passaggio è sempre così devastante. Mi domando anche perché non si riesca ad instaurare mai un confronto dopo che avanzo le mie richieste, ricevendo indietro solo quel maledetto, arrogante silenzio. Deve esserci qualcosa che sbaglio, qualcosa che scatena lo stesso meccanismo. Magari in fondo io sono come loro, magari è la mia parte oscura ad attirarli, ci dev’essere qualcosa che non ammetto a me stessa che altri vedono, forse è per questo che li capisco così bene e che mi si avvicinano così tanto. E mi ritrovo contaminata, bruciata, coperta di fuliggine, di odio e rancore buttatimi addosso che non mi appartengono, tutti sentimenti sproporzionati rispetto a quello che succede in realtà durante il poco tempo che ho a che fare con queste persone. Sono sicura che quell’odio, quella rabbia, quel risentimento non sono per me ma provengono ovviamente da scenari precedenti, da situazioni altrui probabilmente mai risolte, ed io mi ritrovo costantemente a giocare un ruolo in questi psicodrammi che mi viene assegnato in maniera coatta che non è quello che voglio, che non mi porta alla felicità. È un ruolo che mi consuma. E invece io voglio sentirmi libera di esprimermi senza paure e senza giudizio e censura anche nei miei dubbi, voglio essere libera di amare, di lasciarmi andare, di sbagliare e continuare ugualmente a fidarmi davvero. Voglio non dovermi vergognare perché mi sento esposta, ridicolizzata, perché vengo messa in un luogo che non mi appartiene e resa inerme dalla foga arrogante di persone non disposte ad alcun dialogo. Perché in fondo siamo tutti feriti da qualche parte, tutti rotti, tutti maledettamente ammaccati, ma quello che fa la differenza è il saperlo ammettere,, il sapersi esporre senza sentirsi attaccati, il confronto e il decidere attivamente che le nostre cicatrici non possono essere un ostacolo per la crescita e la condivisione. E invece non trovo riscontri ma muri, cado ancora in picchiata, e mi schianto al suolo. E stavolta è davvero troppo, c’è anche il lockdown.
Non riesco a reagire, mi spengo.
È troppo, non trovo altro da dire.
Ed è ancora pieno inverno.
Post scriptum:
Da un paio di giorni c’è il sole a Berlino, e ancora neve per strada, anche se ammassata ai lati. Sono sicura che tempi migliori verranno, è sempre così. Per il momento mi concentro su una frase che ho letto stamattina, che dice così:
“There is no dark inner core.
The darkness is all superficial.
It is the result of the person shining his light on the wrong things”
(Non esiste un nucleo oscuro interiore.
L’oscurità è tutta superficiale.
È il risultato della persona che punta la sua luce sulle cose sbagliate”.
