Intro
Mi viene da piangere. Ultimamente mi capita spesso, nei momenti più impensati sento arrivare la sensazione di una piccola pressione sotto al plesso solare che nasce e che vorrebbe risalire in gola ed uscire con un lamento. È allora che vorrei sentire il viso bagnato per lacrime calde che scorrono giù per le guance, e vorrei che i suoni di sconforto trattenuti in gola trovassero la via d’uscita verso il mondo; è in questi momenti che vorrei riversare l’impetuosa acqua che si muove dentro di me nella polvere di quel piccolo deserto arido che da sempre sento che mi circonda, seppur nella mia vita io sia, almeno ultimamente, sempre attorniata da splendide presenze. Vorrei anche lasciarmi andare ad un pianto liberatorio quando sono immersa nella vasca da bagno, circondata dall’elemento nel quale la vita prende forma, quando vorrei unire le lacrime salate a quel piccolo mare placido nel quale mi piace abbandonarmi nei ritagli di tempo casalinghi. La sento. La sento quell’acqua ribollirmi nello stomaco, la sento cercare una via d’uscita, a volte vorrei addirittura provare del dolore fisico, nella speranza che mi aiuti a rompere le barriere che mi trattengono dal lasciar fluire le mie emozioni. Ma non ci riesco. L’unica cosa che di solito riesco a fare, dopo tutto questo tumulto interiore, è andare in bagno e fare pipì.
Light and Darkness
Era un giorno uggioso ed insolitamente caldo di Febbraio di quest’anno. L’inverno berlinese sembrava stranamente essersi accorciato negli ultimi tempi, perché, se fino a qualche anno fa le temperature scendevano abbondantemente sotto lo zero e “Alexanderplatz, Auf Wiedersehen , c’era la neve…”, di recente la neve d’inverno a Berlino…non c’è più. E neanche le rigide e temute temperature a due cifre col segno meno davanti. Al loro posto si è insediato un clima più mite, con addirittura poca pioggia e qualche giornata di sole, tanto che quest’anno non ho neanche indossato il giaccone imbottito o la pelliccia (finta) più pesante, e non abbiamo neanche quasi mai acceso il riscaldamento a casa, complice anche un edificio dai muri esterni molto spessi ed un buon isolamento termico. Sarà sicuramente per via del tanto declamato ed apparentemente inarrestabile cambiamento climatico, nessuno può negarlo. Eppure per me, quest’inverno, è stato insolitamente duro da affrontare, molto più di quello di circa tre anni fa quando, appena messo piede sul suolo germanico mi accolsero delle temperature che sfioravano i meno dieci-quindici gradi. E proprio in quel periodo furono in molti a mettermi in guardia a proposito dei lunghi inverni berlinesi, del grigiore a causa del quale moltissime persone soffrivano di depressione e di come, accanto ad una dieta composta da kebab, curry würstel e Kartoffelnsalat fosse raccomandabile assumere vitamine, credo quella più in voga ed in cima alla lista di desiderabilità fosse la D o qualcosa del genere. A me in realtà l’inverno è sempre piaciuto, anche il grigiore uniforme del cielo ha sempre esercitato un forse inquietante fascino sui miei stati d’animo, già di per sé non sempre brillanti e spesso grigi e metaforicamente ripiegati su sé stessi, e personalmente preferisco di gran lunga il freddo invernale al caldo estivo. Sarà perché d’estate, se fa troppo caldo, non riesco proprio a respirare, ogni residuo di vitalità viene spazzato via dalla pressante calura che mi rende una meteora impazzita ed ansimante, e non c’è vacanza al mare (anche se non ne faccio più una più o meno dal ’92) che tenga per risollevarmi da tanta oppressione. Io d’estate, se posso, durante il giorno rimango in casa con le serrande abbassate, le tende chiuse e pure le finestre, non sia mai che entri dell’aria calda da qualunque sia fessura anche minima lasciata incautamente aperta. Poi, la sera, se ne riparla. Fatto sta che i primi due inverni a Berlino mi sono stati congeniali: temperature sotto lo zero, giornate corte che mi lasciavano il tempo e la voglia di chiudermi in camera o in qualche locale BDSM della città, o di frequentare workshop. O, peggio ancora, girare per negozio di abbigliamento usato a spendere soldi in improbabili vestiti o, peggio ancora, in inutili cianfrusaglie. Poi, date le diverse vicissitudini alle quali sono andata incontro, lo scorso inverno, quello appunto appena passato, quello tra il 2018 e il 2019, mi ha riservato una spiacevolissima e gravosa sensazione di esaurimento e depressione, mi viene da pensare che abbia sofferto di una qualche forma di quello che viene chiamato “burnout”. Tutto è iniziato verso la metà dello scorso agosto, quando nell’aria cominciai a sentire, in quei giorni caratteristici di tarda estate verso la seconda quindicina di agosto (che, sebbene non sia una stagione a sé, differisce in un qualche modo da tutti gli altri momenti dell’anno), il sentore dell’arrivo dell’autunno. Più vado avanti negli anni e più percepisco la particolare caratteristica di quei giorni di possedere intrinsecamente sia i tratti della luce che quelli dell’ombra, sia quelli della vita che quelli della morte, gli uni esistenti allo stesso momento degli altri. Il sole è ancora alto nel cielo ma la sua luminosità tende ad essere più satura, ovattata, il colore delle foglie degli alberi si intensifica e diventerà di lì a breve marrone, il cielo sembra chiudersi su sé stesso e, come per le foglie, assume un colore più intenso. Mi piace pensare che tutto questo abbia a che fare con il concetto dell’eterna trasformazione degli opposti, concetto che ritrovai, anni addietro studiando Shiatsu, nella teoria dello Yin e dello Yang, che non è soltanto una visualizzazione grafica di un punto bianco inserito nel semicerchio (più una forma a goccia, direi) nero e di un punto nero esistente in quello bianco, come siamo abituati a vedere dalla massificazione del simbolo oltremodo inflazionato, ma è interessante sapere che ogni Yin, arrivato al suo massimo, si trasforma in Yang, e viceversa. In poco tempo, infatti, verso la fine di agosto, la natura tenderà a privarsi di una parte di vita, vita che rinascerà poi la primavera successiva, per piombare in quello stato di quiete (spesso non percepito dai ritmi ai quali siamo stati abituati che prevede comunque intensi periodi di attività durante i mesi invernali che sarebbero invece destinati al riposo) grazie al quale sarà possibile la rigenerazione successiva. Forse non a caso di lì a poco arriverà novembre, il mese dedicato ai morti, e forse, sempre non a caso, per molte culture le celebrazioni del passaggio tra la luce e l’oscurità coincidevano, verso la fine di ottobre e l’inizio di novembre, coi riti tradizionali attuati nelle campagne di chiusura delle attività; un rito classico, per esempio, era quello di bruciare nei campi i resti delle lavorazioni agricole, creando dei grandi falò attorno ai quali i contadini e le loro famiglie si riunivano per celebrare il lavoro svolto. Si ha modo di pensare anche che le attuali celebrazioni cristiane di Ognissanti e del giorno dei Morti (primo e due novembre) provengano dalla celebrazione celtica di Samhain, la notte tra i mesi di ottobre e novembre, considerata la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo. Una delle credenze legate a questa festività è che proprio durante la notte tra l’ultimo giorno di ottobre ed il primo di novembre il velo tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottiglia a tal punto che i morti tornino a far visita al mondo dei vivi. E metaforicamente parlando, ad un certo punto verso l’inizio dello scorso settembre, ho avuto l’impressione che in me una porta, una di quelle che rimangono nascoste e chiuse durante i tempi di attività, di gioia, di positività e di alto livello energetico si fosse improvvisamente socchiusa, lasciandomi intravedere, da lontano e soltanto per qualche attimo, che forma potessero assumere alcune delle mie paure. Arrivavo da mesi di stanchezza fisica dovuta al troppo lavoro, sapete com’è, a questo mondo bisogna, in un modo o nell’altro, sopravvivere e io, come molti, devo spesso rimboccarmi le maniche, e darmi piuttosto da fare. C’è da dire anche che, ultimamente, sento sempre più e con maggior frequenza, e consapevolezza, che il mio corpo cambia con il passare del tempo, così come le emozioni associate a questo tipo di cambiamento. E personalmente trovo che quando sono molto stanca ho meno barriere per resistere all’avvento di paure ed insicurezze; mi sento vulnerabile e non ho le forze necessarie per reagire come farei in un momento di pienezza energetica. Per cui mi sono ritrovata a cedere sotto la pesantezza di uno spleen prepotentemente massivo e sordido, decadente, che mi ha fatta scivolare in quel torpore senza contorni definiti tipico di certi momenti depressivi, neanche maledettamente malinconici ma soltanto vuoti. Ed è in questi momenti che tutti i pensieri di fallimento e decadenza si condensano lì, nel petto, prendendo spazio alla vitalità e tormentando ogni possibile visione di riuscita con il risvolto negativo e pessimista. Mi sono anche ritrovata a pensare ad uno dei tabù più grandi dell’esistenza, forse il più grande di tutti, la morte, non solo la morte come atto finale della vita, ma anche a tutte quelle “morti” di cose, situazioni, relazioni, atteggiamenti, senza le quali non ci sarebbe stata alcuna trasformazione, alcuna evoluzione e a tutti quei momenti in cui, in qualche modo, ho lasciato che il ciclo della vita facesse il suo corso, ponendo fine a quanto era già destinato a finire. E inevitabilmente ho accostato questa visione di morte e rinascita al BDSM, domandandomi se ci fosse stata una qualche connessione. Ci sto ancora pensando, ma credo proprio di si. Perché l’esplorare i confini tra la vita e la morte spesso faceva parte dei riti tribali di iniziazione e di passaggio, destinati a far evolvere gli iniziati e a portarli allo stato successivo dell’esperienza e della conoscenza, e molto spesso, nelle sessioni BDSM, il ciclo assomiglia molto a quello di nascita, crescita attraverso un’esperienza forte ed incisiva, fine e ritorno alla vita quotidiana. Certo, mi immagino che, per esempio, non proprio tutti tutti i fruitori di porno BDSM possano aspirare a paragonare o a vedere delle similitudini tra le pratiche sadomaso e quelle iniziatiche rituali, ma so per certo che alcuni amanti del BDSM amano anche la sua parte rituale, quella catartica, quella per la quale si passa attraverso vari stadi di sofferenza per raggiungere un differente stato di coscienza in maniera consapevole. Personalmente, per esempio, non molto tempo fa, dopo una sessione di Bondage, la rope partner che avevo legato mi ha detto che l’esperienza era stata talmente forte che ad un certo punto ha pensato che stesse arrivando al confine tra la vita e la morte. Si era trattato di una legatura che, partendo da terra, era finita poi in sospensione, braccia legate dietro la schiena, gambe e schiena tenute assieme da un unico giro di corda in vita, testa in giù. Il suo racconto, dopo la sessione, era stato toccante, come le vibrazioni che si erano sparse nell’aria durante i vari stadi della legatura: descrisse un lento e progressivo incalzare di dolore e piacere, di lotta prima e di abbandono poi, nel lasciarsi oltrepassare dalla incessante pressione che le corde esercitavano, complice anche il peso del suo corpo completamente sospeso in aria. Fino al punto di non ritorno, quella soglia che, se oltrepassata, permette l’accesso ad uno stadio febbrile nel quale le percezioni per come le conosciamo sono alterate, dilatate, senza forma ed il corpo diventa un tramite per raggiungere la dimensione estatica. Rimasi totalmente affascinata dalla sua descrizione. È quindi questa sensazione di lasciare il corpo, di distaccarsi dalla carne, dal visibile, paragonabile alla morte? Che ne sappiamo se non l’abbiamo ancora vissuta? E anche una volta che la vivremo, di certo non torneremo a raccontarlo. Ma sembra che la nostra coscienza sappia già di cosa si tratti, sembra siamo in grado di leggere in maniera remota un codice che abbiamo già scritto dentro, come se il nostro corpo sapesse già cosa accadrà al momento della fine, anche se tendiamo a dimenticarcene durante il corso della vita. O magari è un meccanismo della vita stessa di tenere in sottofondo la consapevolezza della fine per preservare il proprio stato. E come quella piccola, sottile feritoia che mi lasciò intravedere le mie paure, la vita stessa, ogni tanto, tende a ricordarci di di quel processo inevitabile nel quale siamo tutti coinvolti. Sarà che allora, questa tendenza alla morte, ci porti a sperimentarne gli effetti anche prima del suo arrivo? Sarà che pur essendo ancora in vita, abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza della fine per renderla parte della nostra esperienza, per affrontare l’idea dell’impermanenza e della transitorietà. Perché a volte, l’illusione della persistenza dell’io, tende a farci dimenticare che “Ricordati uomo, che polvere sei e polvere tornerai”. Memento mori dunque, che dovrebbe ricordarci di vivere appieno ogni istante presente e di usufruire, ognuno con i suoi mezzi e possibilità, di questa esperienza sul piano materiale; ciò però non significa, secondo me, gioire ogni istante, o di perseguire l’illusione di una felicità che rimarrebbe sempre astratta e irreale, ma di trovare cosa ci rende ancora vivi. Per molti, almeno in quanto avviene più o meno in maniera consapevole nel mondo del BDSM, questo coincide con il passare attraverso il dolore, la sofferenza, l’umiliazione, a volte senza neanche includere il piacere e la soddisfazione prettamente sessuale. Così, se personalmente da una parte sono ancora stupita dall’idea della ricerca attiva della sofferenza, del dolore, del tormento, dall’altra penso a quando sento quelle lacrime cercare una porta d’uscita, e al desiderio irrazionale di soffrire per elaborare quell’impulso, e portarlo sul piano dell’espressione fisica, e pur non trovando una spiegazione logica mi abbandono alla evidente naturalezza del fenomeno. Così, quel giorno di Febbraio mi ritrovai a passare da Alexanderplatz. Ero sola, e sembrava già primavera, tanto che, dopo essere stata in uno dei negozi della zona ed aver provato un paio di scarpe (poi comprate, naturalmente), decisi, mentre uscivo, di non indossare di nuovo il cappotto. Lo avevo tolto per provarmi le scarpe, prese su uno degli scaffali degli articoli in saldo (rimanenza numeri o roba del genere) all’interno del negozio e portate in un angolo, dove c’era una panca per sedersi ed uno specchio. Una volta indossate mi resi conto che calzavano alla perfezione, così, dopo essermi specchiata in diverse posizioni (gambe vicine, gambe lontane l’una dall’altra, un piede avanti, l’alto indietro ma un po’ di lato, piedi visti da dietro etc.) decisi che le avrei comprate; così le rimisi dentro la scatola e andai verso la cassa. Pagate, con somma soddisfazione, neanche trenta euro. Mentre uscivo dal negozio decisi, appunto, che il cappotto era oramai superfluo, magari sarà stata la vampata di calore emozionale dato dalla felicità di aver acquistato un paio di scarpe stupende per una cifra oltretutto modica a farmi prendere quella decisione, magari le temperature erano davvero troppo alte per le medie stagionali, fatto sta che lasciai il soprabito dove lo avevo messo poco prima: arruffato alla meglio e poggiato a cavallo della borsa a tracolla, e mi apprestai con passo lesto a raggiungere la stazione della metropolitana, non molto distante. Alexanderplatz è attualmente un piccolo esempio del trionfo del consumismo sulla vivibilità delle zone centrali delle grandi città; una delle maggiori motivazioni con la quale ci si dirige è quella di spendere in qualche modo dei soldi. Tutto è incentrato sul denaro: c’é un grande centro commerciale a più piani, Alexa, dove si trovano i negozi più disparati, da quello che ti vende l’olio d’oliva a quello che propone collanine a 2 euro, passando per negozi di moda, un supermercato interrato, parrucchieri sul pianerottolo delle scale mobili che ti aspettano con le spazzole in mano pronti ad acchiapparti e farti sedere sulle poltrone messe in fila davanti alla vetrata perimetrale che dà su un tratto dei binari della metro di superficie, il solito Starbucks in stile impeccabilmente preconfezionato, negozi di gioielli ed un grande negozio di elettronica su tre piani. C’è anche, non molto distante da Alexa, un altro centro commerciale a più piani chiamato Galeria Kaufhöf, dove trovare dai piatti in ceramica per la tavola alle cravatte, al caffè, portafogli, negozi di intimo, giocattoli. C’è anche un enorme Decathlon ad Alexanderplatz, di quelli che servirebbe un monopattino per raggiungere il lato opposto, e, sempre lì vicino, ci si imbatte in un altro piccolo centro commerciale (di cui non ricordo il nome) all’interno di un palazzo, proprio accanto al Decathlon. Sulla piazza principale un intero edificio è occupato da un grande Saturn (negozio di elettronica ed elettrodomestici) anch’esso a più piani, e tutta la piazza è circondata da ristoranti, qualche bar, dei fast food asiatici, e ciclicamente dei mercatini a tema, a volte con dei piccoli luna park annessi, che riempiono sia visivamente che fisicamente lo spazio. Non mancano neppure i maggiori nomi dei negozi di abbigliamento giovanile trendy, alcuni rivenditori di oggettistica inutile, naturalmente filiali di banche e c’è anche un cinema multisala. La stazione della metropolitana di superficie divide la zona in due parti, la piazza principale, quella dei mercatini, del grande Saturn, della Galeria Kaufhof e del Urania Weltzeituhr (un orologio con una forma davvero particolare che segna tutte le ore delle zone del mondo) e la zona “secondaria”, quella dove c’è il Decathlon, alcuni ristoranti, il centro commerciale più piccolo e l’ingresso alla famosa torre della televisione della DDR, in cima alla quale è possibile godere del panorama di tutta Berlino, nonché di un pasto al ristorante annesso.Attraversavo lo spazio che dal negozio dove avevo comprato le scarpe portava alla metro, quando le mie orecchie percepirono una donna cantare, sembrava cantasse musica lirica, senza nessun altro strumento d’accompagnamento. In strada a Berlino se ne possono vedere davvero molte, per cui, per niente stupita, cercai di individuare il punto dal quale la voce veniva. C’era abbastanza gente in giro quel giorno, per cui ci misi qualche istante per trovare tra la folla la donna che stava cantando. Era un’anziana signora, avrà avuto 80 anni; era lì in piedi, ma appoggiata ad uno di quei carrelli che funzionano da supporto per le persone con problemi di deambulazione; si trovava davanti ad uno dei negozi di abbigliamento, scarpe e accessori nei pressi della stazione della metro, un grande negozio a più piani dalle vetrine scure ed in parte riflettenti. Sul manubrio del carrello teneva lo spartito musicale, una mano era portata all’orecchio (stava tappandosene uno con le dita, cosa che fanno alcuni musicisti per sentire la propria voce dall’interno e mantenere l’intonazione), con l’altra mano si sorreggeva al carrello. Era vestita in maniera sommessa ma ordinata, composta, i capelli erano raccolti ed aveva anche un filo di rossetto, che si adagiava tra le pieghe naturali della pelle invecchiata attorno alle labbra. Ho avuto l’impressione che in passato fosse stata una cantante lirica professionista, il tutto me lo lasciava pensare. L’intonazione era perfetta, la voce sicura anche se non più potente, i leggeri inchini col capo che regalava a chi si fermava a lasciare qualche moneta nel cestino davanti al carrello per deambulazione erano eleganti, mai fuori posto, mai esagerati. Rimasi un bel po’ ad ascoltarla e si, mi misi proprio lì vicino, cercando di raggiungere quella distanza che permette la prossimità massima ma senza scadere nell’invasione dello spazio vitale altrui. L’ascoltavo, e come me altre decine di persone che si erano fermate a condividere un attimo di quella esibizione, e pensavo al tipo di vita che potesse aver fatto quella donna fino ad allora. Magari era stata una cantante lirica di successo, magari attualmente viveva in una casa di riposo e per tornare a calcare un palcoscenico, aveva deciso di esibirsi in strada, per avere nuovamente un pubblico dopo l’inevitabile addio alle scene. Oppure era stata una delle tante cantanti di professione, sempre rimasta nella media e nascosta all’ombra di qualche stella della musica alla ricerca, almeno nell’ultima fase della sua vita, di un pubblico speciale che la facesse sentire unica, fuori dall’ordinario che l’aveva sempre circondata. O chissà, magari niente di tutto questo. E cantava, con voce sottile e intonata, e riempiva la piazza con le note di qualche aria romantica, e triste. Anche se rimasi incantata da quell’inusuale usignolo ad un tratto mi accorsi che stava diventando difficile rimanere. Non era per via del caldo insolito che in quella giornata atipica di Febbraio circondava ognuno degli abitanti della città, non era neanche per la posizione in piedi tenuta per un tempo indeterminato mentre ascoltavo quella esibizione. Non era neanche tardi, non dovevo recarmi in nessun luogo in particolare né dovevo incontrare anima viva quel giorno. Ma mi ritrovai inquieta, quasi tremante, con un tumulto interiore dapprima indefinito che prese pian piano forma, proveniente da un luogo interiore lontano che diventava man mano più chiaro. Ero lì in piedi, il sacchetto con le scarpe nuove appena comprate, col cappotto divenuto inutile a cavallo della borsa di finta pelle nera comprata di seconda mano non ricordo dove, e all’improvviso mi ritrovai attonita, rendendomi conto che quello che mi colpiva così a fondo era la sensazione di avere davanti agli occhi una manifestazione della bellezza vivente che sfioriva. Vedevo in quella donna stupenda un fiore che era stato ancor più meraviglioso appassire, vedevo sfumare la grazia dell’armonia in un conto alla rovescia col tempo, mentre sentivo il cuore che cominciava a battere più velocemente. Mi salì all’improvviso un nodo in gola, la quale si strinse lasciandomi quasi senza fiato. Cercai di contrarre i muscoli addominali, le spalle, tentai di tornare a respirare e di mantenere una apparenza di compostezza pubblica e sociale, del resto ero nel bel mezzo di una delle piazze principali di Berlino, circondata da molte persone e dovevo ancora percorrere un tratto di strada fino alla metropolitana, e arrivare a casa. Ma fu un’emozione troppo forte.
Quel giorno piansi.
