Il mio primo Masochista

Dopo qualche tempo da queste esperienze accettai un invito per un appuntamento con un altro uomo che avevo conosciuto durante un workshop negli ultimi mesi di vita di Schwelle7, il quale si dichiarava apertamente masochista. Era un uomo che avevo visto sempre nudo, o con dei perizomi minuscoli che mettevano in risalto le sue natiche e trasformavano i genitali in un morbido pacchetto mezzo ciondolante tra le gambe. Aveva un corpo tonico ma tozzo, era quasi completamente glabro tranne che per dei peli nella zona centrale del petto, era sempre rasato a zero e portava un pizzetto abbastanza lungo, da poterci fare una piccola coda, volendo. La sua pelle era candida, quasi pallida e opaca, ed aveva gli occhi chiari. Nella mia mente cresciuta a pane e provincialità, comunque, non avevo una chiarissima idea di come ci si comportasse in presenza di un “vero masochista”, visto che non ne avevo mai incontrato qualcuno che si dichiarasse apertamente tale; l’unico appiglio certo al quale potermi aggrappare era che i masochisti amano il dolore.  Ma non ero sicura che bastasse per scrivere un altro capitolo della mia introduzione al BDSM. In compenso pensavo che, se la cosa mi fosse piaciuta (e ne ero quasi del tutto certa), questo avrebbe fatto di me probabilmente una sadica. L’invito in questione era per un party che si sarebbe svolto in uno dei locali BDSM della città, chiamato Darkside, nel quale non ero ancora mai stata. Era un locale che possedeva un’aura ricercata, sembrava un locale BDSM chic, almeno dalle foto che erano pubblicate sul sito web e dalle descrizioni delle attività. Arrivai al locale nelle prime ore della sera, si trovava a Kreuzberg, uno dei quartieri attualmente più in voga a Berlino, e, per potervi accedere, bisognava oltrepassare una porta di metallo, sormontata da un archetto in mattoncini, accanto ad un alto cancello sprangato che si trovava alla fine di un vicolo cieco. Quella porta era sorvegliata da un guardiano il cui compito piuttosto ingrato era quello di rimanere in piedi fuori dal cancello e selezionare per tutta la sera la clientela; se eri in linea con la tipologia di persone accettate nel locale, avresti ricevuto il lasciapassare e quella porta ti si sarebbe aperta davanti, col benestare del guardiano. Arrivai in sua presenza e, dopo il buonasera, lanciato nell’aria preventivamente dalla sottoscritta in inglese mentre mi avvicinavo, scambiammo immediatamente alcune parole generiche e di rito a proposito del più e del meno e di come la pioggia arrivasse sempre all’improvviso in quella città, spesso e volentieri sorprendendoti senza ombrello e, soprattutto d’estate, con le scarpe aperte. Mi sembrò subito chiaro che non avrei avuto grandi problemi ad entrare. Poco dopo, infatti, quella porta di metallo mi venne gentilmente aperta, con gli auguri per una buona serata ed una buona permanenza nel locale. Entrai lentamente nella penombra. Quella porta si aprì su un cortile interno racchiuso tra tre palazzi ed un muro di cinta abbastanza grande da contenere una decina di macchine. La prima cosa che catturò la mia attenzione fu il cono di luce generato da un unico lampione che, almeno durante quelle ore notturne, cercava di dare una vaga visibilità al cortile mettendo in risalto anche alcune finestre di un paio di uffici situati al primo e al secondo piano dell’edificio di fronte all’ingresso. In fondo al cortile a sinistra, blandamente illuminata da una luce fioca sui toni del giallo scuro, che ricordava vagamente la luce emessa da una lanterna, un’altra piccola porta al piano terra sembrava essere esattamente la destinazione verso la quale ero diretta. Ci arrivai a piccoli passi guardandomi attorno, tenendo stretta in mano la borsa di pelle rossa che mi ero portata dietro contenente alcuni attrezzi che pianificavo di usare durante la serata e facendo attenzione ad evitare alcune pozzanghere rimaste lì dopo l’ultimo acquazzone. Arrivai in breve tempo dinanzi alla porta, alla sua destra solo un campanello con il nome del locale, scritto a caratteri gotici su sfondo bianco, la serratura chiusa a chiave ed una telecamera in bella vista sopra il campanello, un occhio meccanico grande come un pugno con la pupilla dilatata messo lì a fare da secondo tramite per ottenere il lasciapassare definitivo. Suonai, e dovetti aspettare un paio di minuti buoni prima che il rumore dell’apertura a distanza della serratura segnalasse che evidentemente avevo finalmente conquistato l’accesso al locale. Sarà stato per via della borsa di pelle rossa piena di attrezzi per torture che portavo in mano, che ricordava quella del dottore, o più verosimilmente per la faccia di chi sta per assaggiare e cibarsi di qualcosa di veramente gustoso e succulento per la prima volta, con la sensazione di volerne già di più. Appena aperta la porta una scala di legno affiancata da un corrimano intarsiato in maniera decisamente barocca e la carta da parati color porpora mi invitavano a scendere al piano interrato. Gli scalini di legno scuro erano ricoperti da un tappeto rosso, fissato con una lamina dorata ai margini, che seguiva il discendere di ogni gradino finché la scalinata non voltava verso destra, per scomparire dietro un angolo, segno evidente che bisognasse scendere ancora. Chiusi la porta alle mie spalle, e una volta arrivata al piano interrato mi trovai davanti ad una tenda di tessuto pesante nera, scostata la quale arrivai finalmente al piccolo ingresso. Dal banco della reception, ove pagai per il mio ingresso, venni invitata a cambiarmi d’abito nello spogliatoio, che, una volta entrata, mi diede insistentemente l’idea di essere un camerino teatrale. Sarà stato per via del grande specchio contornato di luci posizionato sopra ad un tavolo in fondo alla stanza e delle due poltroncine rivestite di velluto rosso messe lì davanti. Una carta da parati a righe verticali panna e bordeaux, poi, rifiniva la ricercatezza dell’ambiente e non c’erano molte cose lasciate lì, segno evidente che era davvero molto presto ed il locale era ancora a corto di clienti. Mi cambiai: avevo portato con me una gonna lunga in stile vittoriano, nera, sopra la quale indossavo soltanto un body anch’esso nero con lo scollo a balcone e le rifiniture di pizzo. Una collana di (finte) perle faceva la sua figura circondando il mio collo e non mi feci mancare il rossetto rosso sangue alle labbra. Lasciai i capelli sciolti sulle spalle, diedi un’occhiata alla mia figura riflessa in quel lungo specchio teatrale appeso alla parete con la borsa degli attrezzi in mano, dopodiché uscii con passo deciso dalla porta di quel camerino (spogliatoio, era uno spogliatoio). Una volta fuori qualcosa di nuovo scattò in me: mi sentii immediatamente diversa. Lo capii dal ritmo dei miei passi, da come i piedi poggiavano sul pavimento, dalla schiena decisamente più arcuata, da come tenevo la borsa in mano e dall’espressione con la quale guardavo chiunque incontrassi sulla mia via. Mi diressi verso la sala principale, adornata da tavolini bassi e rotondi e poltroncine in pelle nera, luci morbide e calde.  Appena entrata la mia vista venne catturata da un paio di specchi, slittando poi su un numero considerevole di quadri con fotografie minimali di corpi legati in pose sicuramente poco confortevoli ma deliziosamente artistiche. In fondo alla sala una gabbia di metallo rigorosamente nero rifiniva la ricercatezza stilistica sotto un paio di lampade a luce rossastra che ne ombreggiavano la sagoma, a tratti inquietante. Già dall’ingresso era possibile intravedere un paio di salette laterali, senza porte, verso le quali mi diressi con passo lento e cadenzato, neanche stessi sfilando per qualche processione, attraversando la sala principale. Una terza saletta situata in fondo, fece la sua apparizione ai miei occhi soltanto una volta arrivata molto vicina. Al suo interno c’era una Croce di Sant’Andrea alla parete (una grande X di legno fissata al muro con degli anelli alle estremità dove attaccare le manette per caviglie e polsi) ed una sedia ginecologica, in pelle nera, ancora in attesa di qualche vittima da inforcare e bloccare tra le sue fauci. Passai rapidamente ad esplorare le altre nicchie, al loro interno una gogna, una gabbia pendente, catene appese ai muri, e applique fissate poco sopra l’altezza degli occhi che emanavano la luce soffusa e calda che richiamava, assieme ai mattoncini rossastri, i vicoli poco illuminati di una cittadina medievale. In tutto questo il bancone del bar era discostato dalla sala vera e propria, una colonna con due sgabelli attorno divideva idealmente i due spazi. In una vetrina rettangolare in un angolo del bar era esposti una manciata di dildi di varie dimensioni, alcuni plug anali, pinze metalliche per capezzoli, un paio di fruste raggomitolate come serpenti ed un collare interamente realizzato in metallo, acciaio probabilmente, che sembrava avere il suo peso. Un paio di baristi in camicia nera e pantaloni attillati poggiavano le loro schiene alla parete di fondo, davanti ad una decente quantità di bottiglie messe in fila su scaffali di vetro, a braccia conserte, in attesa che qualche gola profonda e secca s’avventurasse tra le righe del libretto del menù per ordinare loro di servirgli da bere. Quella sala non era l’unico spazio offerto dal locale, c’era in realtà un’altra porta che avevo notato subito dopo il mio arrivo, una porta socchiusa accanto alla porta dello spogliatoio dalla quale si intravedeva un ulteriore spazio da poter esplorare. Mi diressi verso quella zona, aprii lentamente la porta, e scoprii che v’erano ben più di una sola sala, ognuna comunicante in qualche modo con quella successiva, luci basse, ancora pareti a mattoncini, tanti e diversi strumenti di tortura a disposizione. In una sala laterale era imposto il divieto di parola, con un cartello eloquente appeso all’ingresso. Entrai, pochi silenziosi passi in tondo, quando abbassando lo sguardo scoprii una gabbia interrata nel pavimento, angusta, poco profonda e con solo una minuscola feritoia verso l’alto. Uscii in punta di piedi trattenendo il fiato, continuando la mia esplorazione. Un’altra sala abbastanza grande con un piccolo salotto arrangiato davanti ad un caminetto finto e varie panche per spanking faceva da intermediario con l’ultima e forse più suggestiva parte del locale, le segrete, una serie di piccole celle in stile medievale alle quali si accedeva da una porta-cancello proprio in fondo a quella sala. Lì dentro la luce veniva quasi meno: si trattava di un breve corridoio strozzato alla fine da una grande porta di legno lungo il quale una serie di 5-6 anguste celle si apriva nella parete di sinistra. Ognuna aveva qualcosa di diverso, dove una panca, dove delle catene, dove un gancio o un piccolo materasso poggiato su di un muretto rialzato da terra. Ero ferma, in piedi di fronte ad una delle piccole celle ancora vuote ed avevo le visioni. Mi sembrava di sentire tutte le grida calde, sudate, sofferte che quelle mura potevano aver assorbito, delle quali potevano essersi cibate, immaginavo tutte quelle persone che avevano scelto di pagare  un biglietto di ingresso per poter soffrire e gemere, urlare e all’occorrenza accoppiarsi più o meno selvaggiamente. Anche se in passato il dolore era stato parte attiva della mia esistenza ed ero nel mondo del BDSM da circa un annetto, mi domandavo (e mi domando ancora) cosa spingesse le persone a cercare volontariamente quella sofferenza, quella messa alla prova, cosa ci fosse nelle storie personali che si celavano dietro a tutto questo, e se tutti quelli che si calavano in un’esperienza del genere fossero davvero coscienti di quello a cui andavano incontro, oppure no; o se in realtà qualcuno fosse lì solo per sentirsi parte di un’identità di gruppo, per sentirsi vivi, per sentire il sangue pulsare nelle vene e la spina dorsale ribollire almeno una volta nella vita. Me lo domandavo anche perché stavolta c’ero io dall’altra parte, dalla parte di chi il dolore lo avrebbe evocato, creato, messo a disposizione per chi ne avesse fatto richiesta. E sentivo anche il carico di tutta la responsabilità che ne sarebbe derivato. Fu quando tornai dall’esplorazione della seconda parte del locale che incontrai il mio partner appena arrivato, ancora alla reception, assieme a degli amici, tutti volti che riconobbi perché già visti a qualche party ma mai conosciuti di persona. Quell’uomo mi venne incontro ancora con cappello e soprabito indosso; dopo un caloroso saluto lasciò finalmente il soprabito al guardaroba, invitandomi subito dopo a seguirlo nella sua personale presentazione del locale. Facemmo un giro assieme durante il quale mi mostrò ogni angolo di quel posto, mi illustrò minuziosamente ogni parte del locale, dimostrando di conoscerlo piuttosto bene, sembrava esserne un cliente abituale. Finimmo il tour dirigendoci verso il bar, dove i suoi amici avevano già trovato posto a sedere. Ci presentammo immediatamente e con alcuni fu impossibile non dire “c’eravamo già visti”, cosa che sembrò a tutti un’ottima maniera di rompere il ghiaccio. Ordinammo da bere e dopo che negoziammo una safeword (una parola stabilita prima delle sessioni che, se pronunciata in qualsiasi momento, avrebbe immediatamente interrotto l’azione che si stava svolgendo segnalando un limite raggiunto, un disagio, una situazione di pericolo) iniziammo il nostro primo gioco da lì, sotto gli occhi di tutti, mentre i nostri calici di vino stavano arrivando al tavolo. Vietai immediatamente al mio partner di sedersi con noi, gli fu concesso soltanto di rimanere in ginocchio accanto a me, non prima di essersi tolto i vestiti di dosso, rimanendo con un perizoma nero a testa bassa lì, sul pavimento, mostrando già qualche segno di sofferenza alle ginocchia. Mi feci consegnare il mazzo delle chiavi che teneva appese ai pantaloni, mi disse immediatamente che aveva sempre paura di perderle da qualche parte, per questo le teneva lì assicurate da un moschettone. Fu come se mi fossi fatta consegnare un piccolo lasciapassare verso una sua paura. Misi sprezzante le chiavi sul tavolo, in bella vista tra i bicchieri di vino rosso e cominciai a tirare fuori i miei strumenti. La prima cosa che presi dalla borsa furono le pinze per capezzoli, rotonde, dentate, con una rotella che ne regolava la pressione ed una catenella che le teneva unite. Ci misi poco a piantarle nei grandi capezzoli di quell’uomo, la reazione fu immediata, dalla sua posizione in ginocchio il mio partner si contorse lateralmente in un mezzo grido di dolore. Non potei fare a meno di notare quanta vitalità ci possa essere in una spirale ascendente di calore, quella sensazione che ci ricorda, nel mezzo del torpore della fluente noia quotidiana, che siamo ancora vivi. Presi il mazzo delle chiavi poggiato poco prima sul tavolo, lo feci tintinnare vicino alle orecchie di quel corpo nudo inginocchiato su un freddo pavimento ancora in torsione per il dolore, e cominciai a graffiargli la schiena, il collo, l’interno delle braccia, finché non lasciai ciondolare quel mazzo di chiavi appendendolo alla catenella che teneva assieme le due pinze dentate per capezzoli, ovviamente ancora saldamente ancorate a quei due insolitamente grossi pezzi di carne. Eravamo assieme da neanche un’ora, giro assieme nel locale compreso, e quell’uomo era già nudo in ginocchio a terra e stava iniziando a lacrimare. I nostri compagni di tavolo erano intenti ad osservare incuriositi quanto stava accadendo mentre sorbivano lentamente il vino dai loro bicchieri, conversammo piacevolmente mentre stavo regalando quella splendida agonia al mio partner e trovammo anche di avere alcune cose in comune che non avremmo mai pensato di avere. Decisi, dopo aver finito il mio primo bicchiere di rosso ed aver rimosso le pinze dai luoghi che le avevano così calorosamente accolte, che era il momento di passare a qualcos’altro. Avevo con me le mie prime corde di canapa, usate, avute in regalo da un amico ed avevo tutta l’intenzione di usarle, ed un flogger in pelle nera scalpitava all’interno della borsa chiedendomi di venir maneggiato al più presto. Mi alzai e ordinai al masochista di fare altrettanto, facendolo piazzare davanti all’ingresso della sala, di nuovo a terra, di nuovo in ginocchio, stavolta col deretano all’insù. Peccato che al tempo non avessi altro che quel flogger, ma mi feci bastare quel che avevo, e cominciai a flagellare quelle natiche agghindate dal perizoma nero fino a farle diventare rosse, viola quasi, mentre le grida del ben capitato masochista riempivano la sala. Lo presi anche a calci, spingendo prepotentemente quell’ammasso di carne faccia a terra. Mi avvicinai lentamente, gli ordinai di alzarsi. Fu lento e ansimante nell’alzarsi, e non appena fu in piedi gli lasciai un bacio in fronte, dato col rossetto rosso, come un marchio. Lo legai stretto, passando più e più volte le corde attorno al torso quasi a togliergli il fiato, poi gli legai le braccia, bloccandole dietro la schiena e passai una ultima corda attorno alla vita, lasciandone un bel pezzo libero ancora nelle mie mani cosicché avrei potuto usarlo per strattonarlo e trascinarlo via con me. Ci dirigemmo quindi verso la sala secondaria, quella che dava accesso al corridoio con le piccole celle quasi totalmente buie. Ci fermammo infine su un materasso rialzato nell’angolo di quella sala, proprio davanti al salottino col finto caminetto. Lo slegai, per legarlo di nuovo, stavolta più stretto ancora, facendo passare la corda tra le sue gambe, annodandola attorno ai genitali, facendo pressione sull’ano per sentirlo gemere ancora, sculacciandolo sulle natiche oramai viola per farlo contorcere mentre sedevo sulle sue gambe per tenerlo fermo, bloccando ogni tentativo di ribellione col peso del mio corpo. Infilai un guanto nero di latex, scostai il filo del perizoma all’altezza dell’ano, prendendo anche la corda tra le mie dita, il che strozzò ancora di più i suoi genitali, facendolo sobbalzare e gridare all’improvviso. Avevo del lubrificante con me, sentendomi piuttosto magnanima ne presi un po’ tra le dita e cominciai a giocare con lui, infilando in quell’ingresso posteriore prima uno, poi due e poi tre dita, lasciandole scivolare su e giù, con crescente rudezza. Tiravo quella corda con l’altra mano nel frattempo, e sentivo irrigidire quel corpo sdraiato sotto di me ad ogni strattone, ma ancora niente safeword, niente blocchi, nessuna interruzione, segno evidente che quello che stava accadendo era ancora nei ranghi della sua tollerabilità. Le dita ricoperte dal quel guanto nero ed impiastrate di lubrificante non bastavano più a solleticare il mio neonato sadismo, non mi dava più alcuna soddisfazione vedere che quel pertugio si stava dilatando e che le dita scivolavano dentro con troppa poca resistenza. Presi un plug di silicone nero che avevo portato con me, una misura media e lo spinsi con decisione dentro quella carne aperta, forzandone l’ingresso noncurante delle contorsioni del corpo del mio partner e delle sue grida. Ma tanto era legato. Lo spinsi in profondità, rigirandolo per farlo aderire bene alle pareti interne e fermandolo poi all’esterno con il filo nero del perizoma e la corda a fare pressione, accentuando la cosa con un paio di altri nodi. La sua immagine mi piacque: ansimante, sudato, le natiche viola, legato e con un plug infilato nell’ano. Ripresi a sculacciarlo, noncurante dell’aspetto della pelle, quando ad un tratto una delle ragazze che era seduta con noi poco prima si affacciò sulla scena con il mazzo di chiavi di quell’uomo in mano, dicendo che loro stavano andando via e non volevano lasciarlo sul tavolo. Lo presi in custodia e la ringraziai con un caldo abbraccio, mentre i rantoli del masochista facevano da sottofondo. Decisi che per quella prima volta poteva bastare, d’altronde il locale si stava svuotando di nuovo, avevo evidentemente perso del tutto la cognizione del tempo. Slegai pian piano il mio partner, lasciando il plug per ultimo, come una ciliegina sulla torta. Sudato, rosso in faccia e nel didietro, tremante e con le gambe poco stabili si alzò in piedi ringraziandomi, per poi prendere in mano le sue chiavi e dirigersi verso la sala principale, dove i suoi vestiti stavano ancora aspettando il suo ritorno appollaiati su una delle poltroncine in pelle nera. Io raccolsi i miei strumenti, realizzai che una parte della gonna nera che indossavo si era rovinata e imprecai silenziosamente, avrei potuto chiedere a quell’uomo i danni e tornai nel camerino/spogliatotio, soddisfatta di quella performance che mi aveva permesso finalmente di esplorare una parte consistente della mia ombra e quella di qualcun altro.