E allora vorrà dire che sono lesbica (o forse no)

Molti (ahimè) anni fa, quando mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti di Perugia dopo aver frequentato l’istituto d’Arte di Orvieto, avevo ancora la testa piena di sogni e meraviglie. Bastava davvero poco per suscitare in me delle incredibili emozioni e l’idea di trasferirmi in quel posto seppur così vicino, non solo geograficamente ma anche nello stile e nel tipo di vita, alla mia piccola città natale sembrava già un viaggio verso El Dorado, che sapeva deliziosamente di magia, di avventura, di ignoto. Mentre mi iscrivevo al primo anno ed ero in cerca di una stanza dove alloggiare assieme ad un mio caro amico di Orvieto, anche lui in procinto di imbarcarsi nel lungo ed incerto cammino universitario iscrivendosi alla facoltà di Filosofia, stavo letteralmente muovendo i primi passi per andare a vivere in un’altra città, apparentemente fuori dal raggio di influenza dell’idea di me che in quegli anni post-adolescenziali carichi di problematiche e struggimenti si era insinuata nella mia mente. Il rapporto che avevo col mio corpo era conflittuale, ero in sovrappeso, apparivo e mi sentivo goffa, non riuscivo a relazionarmi con nessuno e parlare dei miei problemi mi era impossibile. Purtroppo poi, vivendo un un piccolo paese di provincia, mi sentivo addosso gli occhi ed il giudizio di tutti, e non riuscivo altro che provare un incommensurabile disagio. Al tempo la mia reazione istintiva e primitiva a tutto ciò, quella reazione che di solito sorge nelle viscere, quella che risponde ad un irrazionale fremito che corre irriverente su per la spina dorsale e non lascia molto spazio all’immaginazione, era quella di rompere quello schema, fuggire da quella gabbia nella quale sentivo di essere prigioniera, sentendo di non avere a disposizione altri mezzi se non la fuga. Per cui andare a vivere in un altro luogo sembrava davvero, e probabilmente lo era, la soluzione migliore. Quando arrivai a Perugia provavo stupore per qualsiasi inezia, avevo la sensazione amplificata di vedere un posto per la prima volta e trovarlo stupendo, pieno di nuovi dettagli e suggestioni e l’idea che, da lì in poi, avrei potuto viverlo in prima persona riempiva dei vuoti, o creava nuovi spazi, all’interno della mia immaginazione e della mia sofferenza, proiettando nella mia mente il film della realizzazione, ovviamente vittoriosa e salvifica, delle infinite possibilità in divenire che ancora ivi giacevano soltanto in potenza. Viva nella mia memoria è ancora la veduta di via dei Priori mentre la percorrevo in discesa  per arrivare a San Francesco al Prato, o la risalita verso il Tempietto passando per l’Università per Stranieri e Corso Garibaldi, che aveva ogni volta il sapore di un pellegrinaggio mistico, i Giardini del Frontone, o via della Madonna, dove dopo un paio di anni dal mio primo approdo in quella città trovai un piccolo appartamento al secondo piano, una stanza, un bagno senza riscaldamento ed una piccolissima cucina dove c’era posto soltanto per il lavandino, tanto che il frigorifero dovevo tenerlo nella stanza principale, vicino al letto. L’unica finestra presente in quel piccolo monolocale dava sullo stretto vicolo chiamato, appunto, via della Madonna per la presenza di un’icona mariana incastonata sotto all’arco a mattoni che apriva l’ingresso alla via. Non molto distante da lì c’era uno dei locali must della città di allora, oggi credo abbia cambiato nome ma metto totalmente in discussione la sua corrente esistenza, un pub chiamato “Lo Zoologico”, punto di ritrovo degli alternative-punk-rockers-reggae-ravers e quant’altro che ogni sera (tranne il lunedì che era giorno di chiusura) si davano appuntamento lì per bere, rimorchiare, fumare erba seduti sugli scalini del vicoletto lì accanto o perché no, spacciare sostanze varie e non ultimo ascoltare, con totale esaltazione, le playlist musicali che venivano diffuse nel locale, che ripercorrevano fedelmente i gusti alternative dei clienti. Lo Zoologico era un pub piuttosto caratteristico, visto che si sviluppava in altezza partendo da un piccolo piano terra dove c’era il bancone e due tavolini a forma di botte con degli sgabelli, un piano intermedio fatto da una nicchia ed un piccolo pianerottolo, ed un primo piano leggermente più ampio, ma che avrà potuto contenere una decina di tavoli, non più; il tutto era connesso da una scala interna anche piuttosto ripida.  Credo fosse ricavato da un edificio originalmente costruito nel medioevo, di cui conservava ancora alcuni tratti. Di solito era piuttosto arduo trovare posto a sedere all’interno, per cui la maggior parte delle persone passava ore e ore (notturne) bivaccando lungo la strada principale con sommo disgusto  degli abitanti del circondario, o usufruiva della scalinata presente nel vicolo lì accanto per sedere in gruppo e socializzare alla maniera degli “alternativi”, con specifici rituali codificati e ripetuti all’infinito: fumare erba aspettando di fumarne ancora supponendo che qualcuno del gruppo avesse di lì a poco preparato il joint successivo, parlare di musica, ridere per ogni non senso, parlare della qualità dell’erba di turno, finire l’erba. Finita pure l’ennesima birra media era previsto che ci si dovesse alzare per andare in cerca di altra erba, tornare a sedere nel cerchio più stonati di prima e ricominciare, sentendo di aver adempito ad ogni canonico dovere per essere, ma soprattutto sentirsi, parte di un gruppo, per avere un’identità ad esso riferita. Nella fattispecie di quello che avveniva quando si eseguiva il rituale seduti sugli scalini del vicolo vicino allo Zoologico la procedura poteva includere anche il ricevere, ad un certo punto, una secchiata d’acqua in testa. E no, non era la parte battesimale del rituale. Io stessa ne ricevetti qualcuna (sospetto che a volte non fosse solo acqua) provenire dai piani alti di quelle abitazioni, intorno alle 2-3 di notte. E poi c’era l’Accademia di Belle Arti, questo ritrovo per diverse tipologie di artisti in divenire che pullulava di personaggi variopinti e assortiti, spesso convinti che bastasse vestire con uno stile trasandato ed i capelli non lavati da decadi per sentirsi autorizzati ad essere etichettati come artisti. È sarcasmo il mio, ero una di loro. Comunque, tutto intorno a me era un’attrattiva, un motivo di meraviglia ed era così diverso dalla realtà  del paese dalla quale sentivo di venire e alla quale pensato di appartenere che molti dettagli, anche i più insignificanti, potevano esaltarmi all’inverosimile. Eppure, stranamente, ero ben lontana da sentirmi una persona felice. Qualche giorno fa, qui a Berlino, dopo circa una ventina di anni (doppio ahimè) da quei momenti, mi sono ritrovata improvvisamente a riflettere su tutto questo mentre mangiavo  banalmente l’ennesimo Kebab in uno dei moltissimi Kebab dealer della città. È un’azione che può sembrare così poco poetica e priva di colore che non mi sarei mai aspettata che la mia mente riaprisse inaspettatamente una finestra così ampia su questo scorcio di memorie lontane. La causa scatenante di questa visione così profonda è stata ricordare la prima volta che, proprio a Perugia e forse proprio la prima volta che ci misi piede da sola ai tempi dell’iscrizione all’Accademia, mangiai una pita al ristorante greco. Anzi, neanche al ristorante, presi quella pita direttamente da una delle finestre a vetri del ristorante, di quelle aperte da un lato dalle quali si poteva vedere il cuoco armeggiare con vari strumenti, ma solo dalla vita in su. Non sapevo neanche cosa fosse una pita, mi fermai a questo ristorante greco considerandolo un posto esotico da dover provare assolutamente, e ordinai  qualcosa in base alla lista degli ingredienti presente sul menù, credo che quello che catturò la mia attenzione fu la gloriosa attrattiva della presenza delle patatine fritte all’interno del piatto.  La pita che ricevetti poco dopo era una piadina morbida arrotolata con dentro dei pezzi di carne, insalata, patate fritte appunto, il tutto condito con maionese. E quella pietanza al tempo così esotica per me, mai vista prima nella mia Orvieto ma così facile da reperire nella “città” di Perugia mi fece sentire, magari ingenuamente e provincialmente, appena un po’ più cosmopolita, in grado di entrare in contatto con un’altra, variegata dimensione delle cose. E mangiando quell’ennesimo Kebab qui a Berlino, pochi giorni fa, ho rivisto la poco più che adolescente me di più di venti anni fa aspettare per la prima volta quella pita al di fuori della finestra a vetri a confronto della me contemporanea seduta sulla panca di legno di un Türkisch grill point nei pressi di Warschauerstraße, dopo gli innumerevoli ed inaspettati cambiamenti che sono accaduti in tutti questi anni. E in questa visione la me del passato e quella del presente avevano a che fare con una pietanza simile in mano, consistente in una piadina arrotolata e riempita con carne, insalata e delle sempre ben accette patate fritte nella versione greca proveniente dal passato, dall’altra cetriolo e peperoncino verde in agrodolce in quella  tedesca-turca contemporanea. -“Nonostante tutto continuo negli anni a mangiare roba simile”- oppure -“ I tedeschi il cetriolo lo mettono dappertutto”- potrebbe essere benissimo stato questo il mio pensiero mentre mi fermavo a guardare quel Kebab ancor prima di dare il primo morso, quando in realtà, da una situazione così quotidiana, alla quale non presto più neanche tanta attenzione, non ho potuto fare a meno di notare come sia potente l’impatto che le cose hanno nella nostra vita, nella mia perlomeno, quando accadono per la prima volta: il fascino eclatante e avvolgente delle prime scoperte, il primo approdo in terre sconosciute magari dopo un lungo viaggio alla ricerca di qualcosa altro da sé, lo stupore nell’accorgersi che abbiamo altre possibilità o la magia di vedere con occhi diversi noi stessi. In un certo senso questa ricerca mi ha sempre guidata nel corso degli anni a venire, portandomi continuamente, a volte anche in maniera compulsiva, a rincorrere nuove terre da esplorare, magari fuggendo da quella parte di me che non posso, non voglio, non riesco ad affrontare. O magari semplicemente affrontarla non è la mia priorità, inutile cercare soluzioni dove non ce ne sono, magari non c’è niente da affrontare, magari siamo solo fatti così, imperfetti, complicati, irrazionali, irrequieti e incostanti, incoerenti, perennemente  insoddisfatti. Forse alimentare la sensazione che ci sia “qualcosa” da affrontare creerebbe essa stessa “qualcosa da affrontare”, ed il processo di elaborazione della suddetta prenderebbe così tanto tempo nella mia vita che non ne trarrei mai giovamento se non addirittura poco prima della mia morte, avendo in realtà solo sprecato tempo e risorse preziose potenzialmente utili da poteri utilizzare per ricercare attivamente sul momento quello che mi soddisfa maggiormente. Voglio poter pensare che la soluzione sia potenziare quello che mi fa stare bene, invece che rincorrere e dare spazio a ciò che mi distrugge, e fare nuove esperienze e sondare nuovi territori fa parte da sempre di ciò che mi motiva e sostiene. Per esempio qui a Berlino, la mia ultima, in termini di tempo, tappa del percorso di scoperta rientra nell’aver vissuto una esperienza nel mondo lesbico. Quello che ha sovvertito alcune delle credenze che avevo avuto finora è stato che ho sempre considerato me stessa una donna eterosessuale, visto che sono profondamente attratta dagli uomini, mai mi era sorto il dubbio che potessi avere una qualche relazione, seppur soltanto dal punto di vista sessuale, con una donna, eppure è successo in maniera anche del tutto naturale. Qualcosa del genere accadde, in maniera ancora embrionale, estemporanea ed inaspettata all’incirca un anno fa durante una vacanza invernale in Polonia (vedi “Uno strap-on tra amiche” in questo Blog). In quel momento non c’era nessuna relazione sentimentale tra me e quest’altra donna, nessun interesse profondo se non quello di condividere un diverso ed eccitante momento tra amiche e come “prima volta” fu entusiasmante, ma rimase, appunto, nell’ambito del gioco, della curiosità per la scoperta qualcosa di nuovo e la mia sperimentazione si fermò lì, tanto che poco dopo tornai ad avere soltanto uomini come partner. Il destino volle, mettiamola così, che dopo qualche mese da quell’incontro, continuando la mia attività preferita all’interno del BDSM che è il Bondage, incontrai in maniera estremamente casuale una ragazza, con la quale stabilimmo quasi immediatamente una relazione rigger-bunny. Mi accorsi immediatamente che per lei lasciarsi andare tra le corde era piuttosto arduo, durante la prima sessione che facemmo assieme non chiuse gli occhi neppure per un attimo, continuando a guardarsi attorno sospettosa e spaventata. Non che ci si debba immediatamente lasciar svenire durante una sessione di Bondage e neanche fidarsi ciecamente di quanto stia accadendo, rimanere vigili e presenti sarebbe l’ideale ma nel suo caso sembrava una reazione incontrollata, quasi un ostacolo da superare che non le permetteva di godere a pieno di quello che stava vivendo. Finimmo la sessione ed ebbi la sensazione che non si sarebbe portata a casa una bellissima e profonda esperienza, o che qualcosa l’avesse davvero toccata, scambiammo poche parole in attesa che la serata finisse e tornammo entrambe nelle rispettive abitazioni. Fui sorpresa quando mi chiese, pochi giorni dopo, un’altra sessione. Acconsentii, e ci ritrovammo la settimana seguente. Stavolta fu diverso, trovai quasi istintivamente la porta di ingresso per rompere quella sua rigidità facendole il solletico sotto i piedi, naturalmente dopo averla impietosamente legata senza lasciare al suo corpo alcuna possibilità di movimento. L’impatto di quella azione fu fortissimo, fu qualcosa che la riportò immediatamente nel momento presente come non lo era mai stata prima, la sentivo e la vedevo reagire con forza a quel solletico, urlare, dimenarsi e tentare di opporre, inutilmente, resistenza. Sudava, io pure, mentre cercavo di continuare a torturare i suoi piedi con un solletico graffiante, denso, insistente, arrivando a sdraiarmi di peso sul suo corpo, a tapparle la bocca con la mano, di certo guardarsi attorno con aria spaesata come era successo la volta precedente non era adesso la sua principale preoccupazione. Continuammo a vederci per fare Bondage, sembrava che ad ogni incontro successivo entrassimo sempre più in sintonia, che riuscissimo a capirci senza parlare. Un sabato pomeriggio, in un non eccessivamente caldo mese di Giugno, mi invitò inaspettatamente a casa sua per un po’ di pratica. La sessione di corde fu molto intensa. La sorpresi cominciando a torturarla, dopo averla consenzientemente immobilizzata, con un semplice, banale stecchino preso estemporaneamente da una di quelle confezioni di plastica trasparente cilindriche rimasta aperta sul tavolo lì accanto, probabilmente dopo qualche pasto da lei consumato distrattamente non molto tempo prima davanti alla Tv. La parte del suo corpo che preferivo stuzzicare con quello stecchino erano i piedi, visto che avevo oramai capito che erano la zona più sensibile del suo corpo, quell’entrata che mi aveva permesso di arrivare fin sotto quella rigida armatura e toccarla nel profondo come mai nessuno, a detta sua, aveva fatto. E poi ancora tante sculacciate (indossava dei pantaloncini corti stile anni ’70, di quelli in poliestere, lucidi, che si usavano per fare ginnastica, neri bordati di bianco, che da quella posizione ne incorniciavano maliziosamente le natiche lasciandone un 3/4 scoperte). Le morsi anche un fianco ad un certo punto, e le strattonai la testa all’indietro legando i capelli alle corde che passavano sulla schiena, il che la fece rimanere a bocca aperta, letteralmente. Presi a torturarla in quella posizione, passai anche una corda all’interno della sua bocca per divaricarne maggiormente l’apertura e sovrapposi una gamba all’altra, creando una forte torsione lungo tutto il suo corpo. Continuai a punzecchiarle le natiche con lo stecchino, non prima di averle debitamente arrossate con numerose sonore sculacciate, le quali risuonavano insistentemente nel piccolo appartamento come il suono dei piatti di metallo suonati da un percussionista a tratti solcano e sottolineano trionfalmente la melodia suonata dal resto dell’orchestra. O come, più volgarmente parlando, fanno quelle scimmiette-giocattolo a molla vestite come dei componenti di una banda musicale coi loro piatti dorati di metallo, che sbattono l’uno sull’altro in maniera dissennata, scomposta e compulsiva. Cominciai a slegarla dopo che, sbavando da quella bocca rimasta aperta a causa delle corde, aveva bagnato un po’ troppo il tappeto e le sue grida avevano fatto il giro dell’isolato per almeno un’oretta buona. Ci tenni a non arrivare immediatamente alla completa libertà, slegavo una parte del suo corpo ma ne legavo quasi immediatamente un’altra, magari anche più stretta della precedente. Cominciai a colpirla nell’interno coscia con la mia mano, a prendere un piccolo lembo di pelle e stringerlo fra le dita, pizzicandola lentamente e sollevando la pelle dal resto. La pelle rimase subito marcata, ma lei ancora non mi fermava, ancora era lì che cercava, in un modo o nell’altro, di resistere, di divincolarsi da quella stretta sfidandomi ad un gioco di resistenza e sopportazione. Concludemmo la sessione dopo aver scattato anche qualche foto, ci volle un po’ per riprendere fiato e tornare nei ranghi e ci prendemmo un po di tempo per parlare di quanto accaduto. Inaspettatamente (ma poi ripensandoci neanche più di tanto) invece di approfondire gli aspetti relativi alla sessione appena terminata cominciò a chiedermi molte cose appartenenti alla mia vita passata. Ad un certo punto ebbi l’impressione che mi stesse sottilmente facendo delle avance, ma siccome i sottintesi non sono il mio mestiere e con me funzionano solo i contenuti espliciti cercai di glissare quasi prepotentemente verso altri argomenti, ostentando una padronanza della situazione atta a svincolarmi da qualcosa che in fondo mi aspettavo già, ma che mi spaventava un bel po’ anche se senza alcun apparente motivo. Devo ammettere che mi piaceva fare Bondage con lei, perché sento di aver varcato una soglia che era rimasta inviolata da tempo, e mi piace molto il fatto che me lo abbia lasciato fare. Mi piace come bunny perché non è la solita marionetta inespressiva che si atteggia a fare da modella, accetta le corde e le restrizioni come una sfida, cercando allo stesso tempo di combatterle, di reagire, di mettersi alla prova. La sua sofferenza è vera, la passione bruciante, quel giorno in particolare mi chiedeva di legarla più stretta, di andare più a fondo, si lasciava stuzzicare, sculacciare, mordere, accettava sul suo corpo i segni di quella lotta e ne voleva ancora di più, mentre giaceva a terra alla ricerca dei suoi limiti. Ed era una persona completamente diversa da quella che si manifestò tra le corde la prima volta. Ci incontrammo ancora per fare Bondage, poi un paio di volte ci vedemmo per altri motivi, una volta per una mostra fotografica organizzata da un’amica che avevamo in comune ed un’altra volta per berci un caffè. Durante quest’ultima le avance si fecero molto più esplicite, eravamo sedute ad uno dei tanti bar ricavati nel locali sottostanti la metropolitana di superficie nei pressi della Humboldt University (per chi conosce Berlino è vicino alla stazione di Friedrichstraße), quando mi disse senza mezzi termini, tra un sorso e l’altro di un lungo e acquoso caffè tedesco, che avrei “dovuto provare sessualmente una donna”, lasciandomi senza respiro per un paio di secondi. Percepito il mio lieve imbarazzo cercò in breve di ritornare ad un tono di conversazione pacato e fluente, passando in breve a raccontarmi qualcosa a proposito di un paio di  episodi di vita quotidiana realmente vissuto con la sua ex, cercando di premere intenzionalmente sul tasto della normalità della cosa. Mi parlò di quando mangiavano patatine fritte sedute sul divano, bevendo birra e guardando la Tv (magari anche ruttando, pensai tentando di immaginare e sdrammatizzare la scena). E che avevano un cane. Mentre il fiume di parole che uscivano dalla sua bocca riempiva l’aria che ci separava fisicamente sentivo che qualcosa stava per accadere, mi sentivo attratta da lei e dall’idea di quello che poteva succedere, ma di certo non sarei mai stata io a fare il primo passo, e non perché era una donna, mi rimane difficile farlo con chiunque. Ciononostante avevo l’impressione che lei, quel primo passo, lo avrebbe fatto immantinente. Levammo le tende di lì a poco, il caffè era finito da un pezzo ed il cielo grigio annunciava una imminente pioggia. Era estate ed avevamo speso quel tempo assieme sedendo nel giardino esterno del locale, tra un muro di cinta coperto da piante rampicanti che separava il giardino dagli altri edifici e il muro di sostegno della metropolitana di superficie, sotto la quale, appunto, il bar aveva la sua sede. Decidemmo di fare comunque una passeggiata, senza apparente meta ed arrivammo nei pressi del Duomo. Ci fermammo sul prato antistante, lei mi disse che amava sdraiarsi sull’erba nei giorni di sole, è una cosa che ha sempre fatto quando esce dall’università e che se volevo potevamo passare un po’ di tempo assieme lì. Certo che, alzando gli occhi al cielo, quella non sembrava essere una giornata di sole, il grigio delle persistenti nuvole non era molto d’ispirazione lasciando poco spazio alle speranze che di lì a poco la solita quantità quotidiana di pioggia, seppur estiva, non sarebbe caduta sulle nostre teste. Ma ci fermammo lo stesso, trovammo un posto sufficientemente pianeggiante e privo di buche e ci sedemmo. Lei si fece una sigaretta con tabacco e cartine ed io mi lamentai del mal di schiena che in quegli ultimi tempi mi stava tormentando. Si propose immediatamente per un massaggio, prese la sua giacca e la stese sull’erba  invitandomi a sdraiarmi. Credo che in realtà sapessi benissimo cosa stava per succedere. Mi sdraiai pancia in giù e testa da un lato, ho sempre apprezzato il ricevere massaggi e sentire che il mio corpo viene manipolato, toccato, e mi piace particolarmente la sensazione di potermi lasciare andare di peso sul pavimento, o terreno che sia, abbandonando ogni forma di pesantezza e restrizioni. Lei iniziò poggiando delicatamente le sue mani sulle mie spalle, quasi a sfiorarmi, come se stesse impastando una sostanza eterea piuttosto che un corpo fatto di carne e ossa, e continuò accrescendo sempre di più la pressione arrivando a stringermi la carne tra le sue dita in maniera anche piuttosto intensa e decisa. Mi piacque il contatto fisico che stabilì non appena iniziò a massaggiarmi, mi piaceva la sensazione tattile delle sue mani su di me, il suo modo di avvicinarsi e protendersi e l’intensità della pressione e della stretta delle sue dita sulla mia persona. Mi scostò la t-shirt e infilò le mani sotto, slacciò il reggiseno chiedendomi di sfilarlo ma continuò a massaggiarmi, come se non volesse perdere il contatto, ora la sua presenza si era fatta di nuovo più sensuale, delicata. Lo sfilai quel reggiseno, lo feci girandomi su un fianco mentre la sua mano non lasciava il contatto con le mie gambe, come se avesse voluto sincerarsi che non fossi fuggita via all’improvviso correndo. Cosa che evidentemente non feci, tornando a sdraiarmi immediatamente dopo aver lanciato il reggiseno nei pressi della mia borsa. Lei riprese a toccarmi le gambe, a sfiorarle, man mano si faceva strada al loro interno creando spazio tra le cosce per arrivare a lambire l’attaccatura dei glutei e passare in maniera fintamente distratta proprio lì, sui genitali racchiusi nei leggins e nelle mutandine. Alla prima passata non successe molto, il livello di guardia, nonostante cercassi di abbandonarmi alla successione naturale degli eventi, sembrava essere ancora leggermente attivo. Alla seconda sussultai, emettendo un lieve gemito e rispondendo alla leggera stimolazione con un piccolo movimento, la terza volta che quelle mani toccarono, senza neanche più dissimulare un contatto fortuito e distratto ma deliberatamente in cerca di una azione volontaria, la mia vulva (dio come odio i nomi propri delle diverse parti dei genitali…raccapriccianti, proprio) mi lasciai scappare un suono considerevole di piacere dalla bocca, seguito da una risatina anche piuttosto sciocca e da un piccolo sobbalzo del bacino. Sollevai anche leggermente la testa, dando distrattamente un’occhiata intorno se mai ci fossero stati degli spettatori involontari, eravamo pur sempre in un giardino pubblico…di fronte alla cattedrale di Berlino, in pieno giorno, nuvoloso si, ma con ancora una visibilità piuttosto nitida. Nelle rare volte che mi era capitato di passare per quel posto avevo sempre visto naturalmente molti turisti, qualche studente, appunto, sdraiato con libro in mano e spesso un joint nell’altra, ma una volta mi capitò di trovarci addirittura una lezione di ballo latino americano, anzi, per essere precisa, una lezione di ballo di gruppo latino americano, con stereo portatile azionato a tutto volume manco fossimo nel ghetto di New York negli anni ottanta in mezzo ad una black gang rap e queste 10-12 persone di un’età piuttosto variabile scatenate e saltellanti a ritmo di musica. Quel giorno, mentre alzavo leggermente la testa dopo che quella ragazza impertinente mi aveva passato ripetutamente una mano in mezzo alle cosce, non c’era nessuno in vista, fortunatamente. Ma s’era appropinquata l’ora di frenare gli istinti e le mani, senza arrivare a perdere il controllo in un luogo così poco opportuno. Tornai a sedere coi capelli arruffati, la maglia alzata e senza reggiseno, cercando di dissimulare un pacato comportamento degno di un normale incontro sull’erba tra amiche.  Ci guardammo negli occhi e scoppiammo, naturalmente, a ridere, dopodiché mi fece intendere che le sarebbe piaciuto continuare l’incontro a casa sua e mi invitò a seguirla. Nel frattempo le prime gocce di pioggia stavano iniziando a cadere, annuii, radunai le poche cose sparse e ci alzammo da terra. Fatti neanche dieci passi la pioggia cominciò a cadere in maniera insistente, tanto che dovemmo affrettare in passo per raggiungere la fermata del tram, fortunatamente poco distante. Cosa accadde dopo?

Lo racconterò un’altra volta, forse.

Disegno realizzato da me